ROMA – “Matteo Renzi – scrive Vittorio Feltri del Giornale – ha ricevuto molti applausi perché in fretta e furia ha abolito le Province. Battimani meritati? Forse sì, forse no. Qualcuno che conosce bene il funzionamento degli enti territoriali avrebbe preferito tenerle attive e cancellare, viceversa, le Regioni. De gustibus. È un fatto che le Amministrazioni provinciali sono sparite; non voteremo più per eleggere i consigli e i presidenti”.
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Fin qui tutto è chiaro. Ma che ne sarà degli oltre 50mila dipendenti che costituiscono l’organico complessivo delle istituzioni soppresse? Intanto, diciamo una cosa decisiva: essi continueranno a ricevere lo stipendio. Ci domandiamo: dov’è il risparmio? Cancellare degli uffici e seguitare a retribuire gli impiegati è un doppio spreco. Significa cioè dare dei soldi ogni mese a gente che non fa nulla, non perché sfaticata ma in quanto privata di ogni mansione da svolgere. È paradossale.
Altro quesito: le competenze un tempo affidate ai defunti enti a chi saranno addossate? Alle Regioni? Teoricamente sì, ma in pratica non sarà così. A meno che il personale delle ex Province non venga assorbito dalle Regioni stesse. Nell’eventualità, i costi aumenterebbero. Infatti i compensi assegnati ai lavoratori delle suddette Regioni sono nettamente superiori a quelli riservati attualmente ai colleghi delle assassinate Province.
Se quella di cui stiamo parlando è una riforma finalizzata a spendere meno che in passato, siamo completamente fuori strada. Lo capisce chiunque. In sostanza, se fino a ieri la pubblica amministrazione sganciava 100 per il proprio funzionamento, da domani sgancerà 120. Bell’affare. C’è poi un aspetto negativo da considerare. Le Province avevano sede nei capoluoghi. Quindi erano presenti sul territorio, vicine alla popolazione. Tra poco invece le vecchie attribuzioni degli enti depennati saranno trasferite nel capoluogo regionale, pertanto centralizzate in uffici distanti dagli abitanti dei piccoli Comuni. A parte il disagio per la popolazione periferica, che sarà costretta a recarsi nelle metropoli anziché nelle città in cui si recava in precedenza senza dover percorrere tanti chilometri, occorre precisare che la qualità dei servizi ne soffrirà. Un conto è erogarli sul posto, un altro è erogarli a livello regionale. Ergo, che senso ha aver cancellato le Province se ciò, oltre a non consentire una effettiva compressione dei costi, comporterà un peggioramento di efficienza amministrativa? La riforma, dal punto di vista logico, non sta in piedi.
Per concludere, serve osservare che, anche stavolta, è stato commesso un errore peggiore di quello che si intendeva correggere. È un classico del riformismo italiano di ogni colore: pèso el tacón del buso, come si dice in Veneto. Probabilmente sarebbe stato opportuno non dico sopprimere tutte le Regioni, ma almeno una quindicina, cosicché con cinque di esse sopravvissute sarebbe stato agevole amministrare efficacemente le autonomie locali, lasciando intatte le Province la cui utilità ai fini di mandare avanti le scuole, manutenere le strade e badare alle minute questioni non è mai stata messa in discussione. Mentre le Regioni, stando alla esperienza maturata in 40 anni, hanno dimostrato di essere superflue, anzi dannose, visto che si sono rivelate spesso associazioni per delinquere, centri di spesa, poltronifici il cui bilancio è assorbito all’80 per cento dagli importi versati per finanziare la sanità, gli sperperi della quale sono noti, specialmente al Sud.
Sarebbe interessante che Matteo Renzi ci regalasse in merito qualche delucidazione. Forse ne abbiamo diritto.
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