L’avvocato ..a la causa. In aula senza la h. Corsi di “sopravvivenza” per imparare a leggere e scrivere

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 20 Gennaio 2011 - 17:09 OLTRE 6 MESI FA

“Avvocato, stringa” diceva una volta dal suo banco il giudice all’avvocato che parlava tanto e cuciva, ricamava frasi, parole, concetti. Oggi “Manco le basi del mestiere” potrebbe dire in romanesco Carlo Verdone per descrivere la situazione tragicomica delle nuove leve dell’avvocatura italiana. Scarsa conoscenza dell’italiano, difficoltà a comprendere un testo scritto e frequenti, frequentissimi errori d’ortografia e grammatica. Questo è quello che emerge sfogliando le prove d’esame degli aspiranti avvocati e, persino, alcune memorie difensive. Gli avvocati non leggono, quindi non scrivono, quindi non parlano come acculturati professionisti. Anzi, sono vittime, alquanto complici in verità, di una dealfabetizzazione di ritorno. Fatta la scuola e l’università, tornano indietro, ad una condizione di anlfabetismo espressivo. Chi lo dice, chi offende così gli avvocati?Lo dicono gli avvocati stessi, indirettamente ma chiaramente organizzando per la categoria corsi di lettura.

E’ partendo dalla fotografia di questa situazione che la Fondazione del Consiglio Nazionale Forense ha creato un progetto da affidare alla Scuola Superiore dell’Avvocatura denominato “Libri per ragionare. Libri per sopravvivere”. Un pezzo apparso su questo sito e datato febbraio 2010 ( https://www.blitzquotidiano.it/cronaca-italia/avvocati-ignoranti-allesame-di-abilitazione-tanti-errori-di-ortografia-245933/ ) recitava: “Abbiamo” scritto con l’h (“habbiamo”), “correzione” con due zeta (“correzzione”), l’apostrofo tra le parole “un” e “altro”, sono alcuni degli strafalcioni degli aspiranti avvocati che i componenti delle commissioni di esame, a Torino, si sono trovati a fronteggiare.

«Per un motivo o per l’altro – dice uno dei commissari – ne abbiamo ammessi alle prove orali una media di tre su dieci. Facendo uno sforzo». Se incrociamo la realtà che emerge da queste righe con le varie classifiche mondiali che piazzano le migliori università italiane, ripeto le migliori non la media, tra il 150° e il 200° posto delle graduatorie mondiali stilate nel 2010, non stupisce si sia deciso di ricominciare dall’abc della professione forense: l’uso della parola, scritta e non.

“Il problema grave è che molti avvocati leggono solo le pagine sportive dei giornali”, sostiene Ettore Randazzo, ex presidente delle Camere Penali, e allora la categoria ha deciso di correre ai ripari consigliando dei testi da leggere, dei libri, come si fa con i bambini e i ragazzi in età scolare. Il problema vero però, che non riguarda solo gli avvocati o gli aspiranti tali, è che non di bambini e ragazzi si tratta, ma di soggetti che hanno tutti in tasca una laurea e spesso anche un master e qualche esperienza lavorativa da vantare.

Le cause di un tale disfacimento della cultura della lingua italiana non sono quindi da addossare esclusivamente alla lettura esclusiva della Gazzetta e del Corriere dello Sport, o alla consuetudine della maggioranza degli italiani che legge a fatica un paio di libri all’anno, e spesso uno dei due porta la firma di Bruno Vespa, ma sono da ricercare anche nelle strutture e nelle persone che preparano, o dovrebbero preparare, e che sfornano ogni anno eserciti di laureati che letteralmente non sanno quello che scrivono e non capiscono quello che leggono.

Iniziativa lodevole quella portata avanti dalla Fondazione del Consiglio Nazionale Forense, che anzi dovrebbe forse essere presa ad esempio da altre categorie professionali, ma la questione va affrontata alla radice se non si vuole che la situazione si deteriori ulteriormente relegando l’uso corretto della lingua italiana a una cerchia ristretta di persone come, in epoca medievale, avveniva per il latino a fronte di un volgare parlato dal volgo.