
"Soft power", è morto Joseph Nye l'inventore della formula che Trump ha stracciato. O era solo una maschera? (foto Ansa-Blitzquotidiano)
Pochi concetti nella scienza politica delle relazioni internazionali hanno avuto successo come quello identificato dalla formula “soft power”. L’approccio morbido anche nel lessico rivela un atteggiamento incline alla mitezza, indica una condotta persuasiva, presagisce un consenso allargato: significa, cioè, esercitare un potere attraverso la capacità di far fare agli altri attori, senza costrizioni o minacce, ciò che quel potere si prefigge.
L’inventore della formula, Joseph Nye
La “capacità di ottenere quel che vuoi attraverso l’attrazione piuttosto che con la coercizione o il pagamento: magneti piuttosto che carote o bastoni”, secondo l’efficace immagine che dobbiamo a Joseph Nye, decano degli esperti di politica estera di Harvard e primo teorico della formula “soft power”, da lui coniata nel 1989.
Il fatto che sia morto a Boston in questi giorni all’età di 88 anni e in un momento di cambiamento di fase storica in cui hard power e volontà di potenza sembrano aver recuperato tutte le loro prerogative, invita a ripensare validità ed efficacia del soft power per come lo abbiamo inteso dalla fine della guerra fredda a oggi. Una categoria politica specifica e un valore misurabile (esiste infatti il Global soft power index)

Politologo e teorico delle relazioni internazionali, nato il 19 gennaio 1937 a South Orange nel New Jersey in una famiglia fortemente isolazionista, Nye, con i concetti di “soft power” e “smart power”, ha influenzato profondamente la diplomazia e la politica estera contemporanea.
Ha ricoperto ruoli di rilievo nell’amministrazione americana, incluso quello di Assistente Segretario alla Difesa durante la presidenza di Bill Clinton. È stato anche presidente della Kennedy School of Government di Harvard.
Soft power: “Magneti piuttosto che bastone e carota”
Soft power significa dunque la rinuncia strategica all’hard power della forza militare o economica, a vantaggio di un appeal fondato sui valori e sugli interessi immateriali rappresentati da una cultura e da uno stile di vita preferibili nel senso più largo.
E dunque, nel caso americano, etica ed estetica pop veicolati da Hollywood e dall’industria dell’entertainment, università prestigiose come Harvard, MIT, Stanford che attirano studenti da tutto il mondo, tecnologie e brand globali come Apple e Coca Cola e più in generale gli ideali democratici.
Nye coniò il termine “soft power” al tavolo di cucina nel 1989, mentre scriveva Bound to Lead: The Changing Nature of American Power (1990) durante un anno sabbatico allo St Antony’s College di Oxford.
“Non conta solo chi vince la guerra. Conta chi vince la narrazione”
“Non conta solo chi vince la guerra. Conta chi vince la narrazione”, aveva spiegato. L’idea gli era venuta mentre rifletteva su come rispondere a “Ascesa e declino delle grandi potenze” in cui due anni prima lo storico britannico Paul Kennedy aveva sostenuto che gli Stati Uniti fossero in declino a lungo termine.
Più di recente Nye aveva applicato la teoria del “soft power” ad altre situazioni storiche e Paesi che non fossero gli Stati Uniti.
“L’Impero romano si fondava sulle sue legioni, ma anche sul fascino della cultura e della cittadinanza romana. Alla fine della Guerra Fredda, il Muro di Berlino non è crollato sotto una raffica di artiglieria, ma per i colpi di martello di persone le cui menti erano state influenzate dal soft power occidentale. Volodymyr Zelensky ha usato il suo talento di attore per attirare la simpatia dei media e dei parlamenti occidentali, che poteva essere trasformata in armi per accrescere l’hard power dell’Ucraina nella guerra contro la Russia”.
Solo la maschera del dominio?
Ma il caso recente più eclatante di soft power va cercato nelle ambizioni del gigante cinese. Pechino oggi non si limita a influenzare i mercati globali, parla al mondo veicolando ideali, simboli, cultura. La questione diventa cruciale, anche per comprendere il soft power a stelle e strisce.
Come può conciliarsi l’ambizione cinese nella sua proiezione internazionale con la pratica politica interna di compressione dei diritti, controllo dell’informazione, repressione violenta del dissenso?
Siamo, da un punto di vista letterario, vicini al paesaggio distopico di “The Soft machine” di Burroughs, nel punto morto delle aspirazioni universali dove quello americano non è che un sogno di celluloide, un’illusione in technicolor.
Per tornare al convitato di pietra, il recupero da parte dell’attuale amministrazione Usa della politica di potenza e della brutale affermazione dei rapporti di forza, non è forse il segno rivelatore che il cosiddetto soft power in fin dei conti non era che una finzione, il travestimento rassicurante del dominio? Trump non avrebbe fatto altro che lasciar cadere quell’usurata maschera.