Lambro: per non pagare le tasse avvelenarono il fiume

di Riccardo Galli
Pubblicato il 9 Febbraio 2011 - 15:18 OLTRE 6 MESI FA

MILANO – Non c’entra nulla il sabotaggio, non c’entra la criminalità organizzata e non si è nemmeno trattato di un atto scriteriato senza motivi. Nel Lambro sono state sversate 2600 tonnellate di olii minerali per un motivo preciso: non dover pagare le tasse per lo smaltimento degli olii e nascondere altri illeciti che avrebbero portato a multe salate. Meglio inquinare che pagare quindi, è questo il ragionamento che sta dietro all’avvelenamento del Lambro, del Po e di un pezzo d’Adriatico. E’ questa la ratio che, secondo gli inquirenti e i tecnici ispettori tra loro concordi, ha convinto i titolari della Lombarda Petroli che la scelta più furba fosse quella di nascondere i propri illeciti aprendo i rubinetti della loro azienda per versare gli olii nel fiume e dare la colpa a dei non meglio specificati sabotatori piuttosto che rischiare di pagare delle odiose tasse e delle sacrosante multe.

Questa l’ipotesi su cui sta lavorando la Procura di Monza impegnata a dare una risposta al disastro ambientale che la notte tra il 23 e il 24 febbraio ha provocato una scia nera partita da Villasanta, alle porte di Milano, e arrivata sino all’Adriatico dopo aver attraversato Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. I due imprenditori che si sarebbero inventati il geniale piano per nascondere un’evasione fiscale rispondono ai nomi di Giuseppe e Rinaldo Tagliabue e, per ora, sono accusati “solamente” di sottrazione all’accertamento o al pagamento delle accise sugli olii minerali. Appare però scontato che quando l’inchiesta si chiuderà i due titolari della Lombarda Petroli potrebbero dover rispondere anche di disastro ambientale. Delle 2600 tonnellate versate nel Lambro solo 2200 sono state raccolte, con enormi costi per la collettività, insomma pagati dal fisco che gli sversatori volevano evitare di pagare. Le altre 400, l’equivalente di circa 25 autobotti, sono andate a depositarsi sul fondo dei fiumi che hanno attraversato e sono arrivate a contaminare anche il mar Adriatico.

I due imprenditori hanno sempre sostenuto di essere del tutto estranei allo sversamento, dichiarandosi al massimo vittime di qualche cosca che avrebbe avuto in mente una qualche speculazione edilizia da realizzare nei terreni vicini alla loro azienda, giustificazione che appare fragilina visto che di solito un fiume inquinato non apre le porte all’edificabilità. Contro la loro versione non c’è poi solo il buon senso ma anche le analisi tecniche del disastro. L’allarme venne dato alle 10,25 del 24 febbraio, cioè dieci ore dopo l’inizio dello sversamento, un buco temporale che apparirebbe sospetto anche a un bambino. Aprire le valvole che consentono la fuoriuscita degli olii è poi una procedura complessa che verosimilmente solo un addetto ai lavori può eseguire, e non un fantomatico picciotto. Proprio in conseguenza di questo potrebbe a breve entrare nell’inchiesta uno dei dieci operai dell’azienda, l’uomo che materialmente avrebbe aperto le valvole.

Nei serbatoi dell’ex raffineria, che avrebbe dovuto essere l’anno scorso solo un deposito di stoccaggio, venne trovato poi molto più olio combustibile di quello indicato nei registri dai titolari. A giugno la Lombarda Petroli avrebbe chiuso i battenti e c’era nell’aria una multa salata dell’Agenzia degli Idrocarburi che avrebbe accertato la reale quantità di olii presenti nei serbatoi. L’alternativa che si prospettava per i titolari era quindi quella di aprire il portafoglio per pagare le multe, nate da una loro frode sia ben chiaro, o aprire i rubinetti e avvelenare il fiume.

D’accordo su questa ricostruzione anche i parlamentari della commissione d’inchiesta che hanno visitato il sito. Gaetano Pecorella presidente Pdl della commissione, è stato chiarissimo: “Non è un episodio legato alla criminalità organizzata, ma è stato uno sversamento di petrolio per coprire evasioni fiscali e illeciti tributari precedenti”.