“Siamo circondati da nemici e sono pronti a ucciderci, per un nonnulla, per una banalità”. Le parole dello psichiatra Vittorino Andreoli sul Corriere della Sera sono solo l’incipit di un’analisi che lo stesso fa sulla società e sulle ‘morti banali’ per mano di ‘nemici invisibili’, che negli ultimi tempi sono le protagoniste incontrastate della cronaca italiana, come se uccidere per futili motivi fosse una moda dilagante, come se tutti gli uomini fossero impegnati in una continua lotta per la sopravvivenza dove la società è una giungla e la violenza ingiustificata è la salvezza.
Andreoli conosce bene le dinamiche: psichiatra e scrittore italiano, laureato in medicina e chirurgia all’università di Padova, ha dedicato la sua vita allo studio del comportamento umano e della follia, ed è un oppositore della concezione lombrosiana del delitto secondo cui i crimini vengano commessi necessariamente da malati mentali, sostenendo invece che vi è compatibilità tra la normalità e gli omicidi più efferati.
“Appena si sente uno sparo o un urlo di dolore tutti scappano senza chiedersi se qualcuno abbia bisogno di aiuto perché sta morendo. La morte dell’altro non ci riguarda, e ammazzare non attira l’attenzione a meno che l’omicida non sia Michele Misseri o la figlia Sabrina personaggi di una ‘telenovela’ che si guarda come spettacolo dal salotto”, ha continuato Andreoli, mentre “ci troviamo dentro una guerra combattuta nelle città in cui si muore per aver preso sotto un cane che passeggiava e per aver toccato con la propria lo specchietto retrovisore di un’altra auto. Schegge di violenza che possono colpire chiunque, vittima così di un nessuno e della banalità. Una violenza pulsionale, come se l’uomo avesse perso i freni inibitori”.
La società sta cambiando, l’uomo non è più capace né di ricevere né di regalare un gesto gentile, vive istintivamente le sue pulsioni, indifferente alla sofferenza dell’altro, “senza sapere cosa sia la vita e la morte, senza etica se non la spinta al proprio profitto e alla difesa del proprio piccolo mondo fatti di stupidità, di oggetti e non di senso, di forza e non di valore umano e di amore”.
La spinta emotiva che porta a quella che Andreoli definisce la “degenerazione della specie” e la frustrazione, la “sensazione di mal d’essere che si prova nel mondo, nella esistenza ordinaria”, che agisce come un “debito di violenza. Si accumula e ad un certo momento si libera, diventa azione, nei confronti del minimo fastidio e della causa più insensata. Serve solo un oggetto su cui esprimersi: un figlio, o la moglie, un passante, chiunque permetta di compensare il senso di insoddisfazione e mostrarsi decisi, forti”.
Ciò che manca nella nostra società, l’elemento che permette alla frustrazione di esplodere e degenerare nell’omicidio è la percezione del male, “il male come fascino, come avventura, come trasgressione in una società in cui i ladri si chiamano furbi, le prostitute escort dove vince la raccomandazione e non il merito, dove la falsità è occasione non di riprovazione, ma di strategia esistenziale. Una società dove il denaro diventa la misura dell’uomo e del suo potere”.
Se prima la psichiatria era “era la disciplina che si occupava di comportamenti sani e malati e che si proponeva di curare chi si comportava in maniera pericolosa”, ora essa non è più affidabile, “è confusa e non sa più delineare nulla poiché il tutto va legato alle circostanze e così l’uomo è anche buono oltre che cattivo e sano oltre che folle”. Come si può dunque parlare di follia e di comportamenti pericolosi, se in un mondo dove manca la capacità dell’individuo, sano e normale, di scindere il bene dal male, un individuo ormai desensibilizzato all’orrore dei crimini che si consumano, che parla di omicidi al bar come se la morte, specie se violenta, non fosse un dramma, ma un comune argomento di mero intrattenimento.