Sampdoria & Garrone, storia infinita da Mantovani a Cassano

di Renzo Parodi
Pubblicato il 22 Gennaio 2013 - 18:13| Aggiornato il 16 Maggio 2022 OLTRE 6 MESI FA

GENOVA – I sacri comandanti lasciati in eredità da suo padre, Riccardo Garrone li aveva portati nel cuore per decenni, come il viatico della propria vita di imprenditore. “Mai acquistare giornali. Mai acquistare squadre di calcio”. Si era attenuto alla lettera e non avrebbe mai immaginato di trovarsi, un giorno di febbraio del 2002, proprietario di una società di calcio. La Sampdoria, per la quale aveva covato una passioncella giovanile, da semplice tifoso però, presto sfumata nel fuoco degli impegni professionali. Accadde quasi per caso, Garrone rispose al suo istinto generoso, profondamente genovese, che dimentica la convenienza, – la parola d’ordine degli “scagni” dove per secoli si era accumulata la ricchezza mercantile della Superba – per il beau geste in favore di chi viveva giorni cattivi.

Soprattutto se portava impresso il marchio genova, la città che Garrone amava con disperata ostinazione. A dispetto dei… dispetti che l’establishment gli ha propinato. Tropo fuori dal coro per piacere al milieu ammuffito della città. Troppo orgogliosamente controcorrente, Garrone, troppo visionario e lungimirante, per attirarsi le simpatie di chi vive sott’acqua, traccheggiando nella mediocrità niente affatto aurea.

La Sampdoria in quei mesi, come società per azioni era virtualmente fallita, spolpata fino all’osso dalla pessima gestione (finanziaria e sportiva) di Enrico Mantovani, il figlio del grande Paolo Mantovani, grande amico e sodale di Riccardo Garrone, che l’aveva lanciata nel firmamento delle Grandi del calcio internazionale, conducendola allo scudetto nel 1991 e l’anno seguente alla finale di Coppa dei Campioni (si chiamava ancora così) perduta a Wembley contro il Barcellona allenato da Cruijff. Ebbene, Garrone non era mai stato neppure sfiorato dal pensiero di diventarne l’azionista unico, il proprietario, la parola padrone non gli sarebbe piaciuta.

Duccio Garrone si era prodigato per salvare la società blucerchiata dalla rovina, interponendosi come garante, in una confusa trattativa che avrebbe dovuto condurre a Genova nientemeno che uno Sceicco. La storia prese una piega perfetta per un film di Totò e Peppino, il principe arabo era un’invenzione di uno spregiudicato brasseur d’affaires napoletano, tale Antonino Pane, che si dileguò non appena il suo goffo bluff venne scoperto. Garrone non se la sentì di tirarsi in disparte e abbandonare la Sampdoria al proprio destino. Da genovese vero, “riso reo” (poche risate) e niente chiacchiere, convocò il consiglio di famiglia. “Ho impegnato il nostro nome, non posso tirarmi indietro”.

Acconsentirono tutti, anche il ramo Mondini (Giampiero Mondini ha sposato la sorella di Garrone, Carla),che ha il cuore rossoblù, tutti tranne Monica, la figlia, sampdoriana accanita. Nacque così l’ircocervo della holding proprietaria della Sampdoria, piena zeppa (anche) di tifosi genoani. Un unicum, roba che soltanto a Genova – laboratorio di mille imprese – avrebbe potuto concepire. Non tutti erano d’accordo sul salto nel pallone. Non lo erano – e pour cause, i simpatizzanti del Genoa, non lo era il figlio Alessandro, del tutto estraneo al calcio. Temevano tutti, che il passaggio sul terreno minato del pallone si sarebbe risolto in una debacle finanziaria per il gruppo. Ipotesi non lontana dalla realtà. In undici anni, quasi 150 milioni di euro si sono polverizzati nella gestione della società Sampdoria. In Italia, si sa, il calcio – se gestito onestamente – è sempre un’impresa economicamente in perdita. Ma vuoi mettere la soddisfazione? Ventimila persone che invocano all’unisono il tuo nome nel catino dello stadio ribollente di passione? Certe gioie non hanno prezzo.