Anche l’Atlantico ha la sua isola di rifiuti, è fatta di carta, metalli e plastica

Pubblicato il 1 Aprile 2010 - 14:13| Aggiornato il 25 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Se Cristoforo Colombo avesse percorso l’oceano Atlantico oggi, avrebbe trovato un’isola molto prima di scoprire l’America. Un enorme agglomerato di spazzatura che non avrebbe nulla da invidiare alla Grande Chiazza di Rifiuti del Pacifico. Un’isola grande tra 700 mila e 15 milioni di km quadrati (non è possibile stimarla con precisione perché le immagini satellitari non la captano) che fluttua al centro del secondo oceano più grande del mondo. Ma non è fatta di sabbia, rocce e terreno, ma solo di plastica e altra immondizia che, fluttuando nel mare, viene trasportata da quattro diversi tipi di correnti nell’area corrispondente al Mar dei Sargassi. Immaginatevi dunque che spettacolo vedere un’area grande da due a 50 volte l’Italia, maleodorante e fluttuante.

La scoperta l’ha fatta Kara Lavender Law, oceanografa di Sea Education Association, la quale ha affermato che siccome la spazzatura è traslucida, non può essere identificata dal satellite, ma per individuarla bisogna andarci direttamente in barca. L’isola dei rifiuti ha cominciato a formarsi negli anni ‘50, quando lo spreco di plastica, ma anche di altri materiali, ha cominciato a diventare eccessivo, e questi, in un modo o nell’altro, finivano nei mari, negli oceani, e poi venivano trasportati dalle quattro correnti che attraversano l’Atlantico, ricongiungendosi in questo punto.

«L’isola dei rifiuti si trova in un’area che corrisponde all’incirca al Mar dei Sargassi— ha raccontato la Lavender —, dove sono presenti correnti superficiali con una velocità di meno di due centimetri al secondo. Qui, tra il 1986 e il 2008, abbiamo raccolto circa 64.000 pezzi di plastica, che misurano mediamente meno di un centimetro e pesano meno di 0,15 grammi, nel corso di oltre 6.000 “pescate” con particolari reti a strascico a maglie fini».

La scia di spazzatura è traslucida e non è quindi possibile localizzarla dai satelliti. L’unico modo per studiarla è direttamente da un’imbarcazione. «La plastica — sottolinea Roberto Danovaro, docente del Dipartimento Scienze del Mare dell’Università Politecnica delle Marche — oltre a causare danni diretti per ingestione a delfini, tartarughe e altri grandi animali, frammentandosi viene ingerita da moltissimi organismi marini filtratori». Pericolosi composti, come per esempio i policlorobifenili, possono entrare così nella catena alimentare e da qui raggiungere l’uomo.

«Nel Mediterraneo — continua Danovaro — la presenza di plastica è decisamente diminuita in questi anni, così come quella di catrame e di piombo negli organismi marini, grazie alle normative che regolano la materia e alla severità dei controlli ambientali». Attualmente vengono prodotti al mondo, ogni anno, circa 250 milioni di tonnellate di plastica e meno del 5% viene riciclata. L’unico modo per diminuire la dimensione delle discariche oceaniche, segnalano gli esperti, è quello di aumentare il riutilizzo di questo materiale.