Premi Oscar: gli italiani a bocca asciutta, ecco perchè

La cerimonia degli Oscar

LOS ANGELES – L’edizione 2011 dell’Oscar ha messo in mostra più di una particolarità: dalla corsa al successo di registi altrimenti confinati alla nicchia dei cineasti da festival (Aronofsky col “Cigno nero”) all’affermazione di un gusto europeo dello spettacolo che per Hollywood non è abituale e che invece con “Il discorso del re” celebra la tipica eleganza inglese di confezione. Ma al tradizionale Ballo del Governatore che stanotte ha accolto i vincitori, non c’era nessun italiano che potesse festeggiare.

Si sapeva da tempo, visto che Paolo Virzì non aveva superato nemmeno le qualifiche per il concorso al miglior film straniero e l’amatissimo (all’estero) “Io sono l’amore” di Luca Guadagnino aveva piazzato appena una nomination con Antonella Cannarozzi, in gara per il costume designer e battuta sul filo di lana. Si sapeva, eppure lo schiaffo brucia egualmente e induce alla riflessione. Non è una bocciatura del nostro cinema attuale, mai così in salute dentro i confini nazionali, semmai è un indizio del fatto che la riconquistata capacità dei nostri autori di parlare a un pubblico, sconta la scelta di una ”medioctità” che non stupisce e non colpisce gli spettatori stranieri.

Ne è prova il premio Oscar al film straniero andato a un film emozionante (ma certo meno facile e colorato di “La prima cosa bella”) di una regista donna (seconda affermazione di fila, un evento) che viene dalla Danimarca, certo non una potenza in termini di marketing e promozione del proprio prodotto. Ma i giurati non hanno avuto dubbi e una volta di più non hanno ritrovato il cinema italiano che cercano nell’opera proposta dalla nostra commissione di selezione. Il dibattito sulla scelta fatta resta ozioso anche perchè quella di Virzì era comunque una candidatura forte, assecondata da un buonissima macchina di promozione in loco.

Più importante domandarsi se non si devono aggiornare i giudizi sullo sguardo degli stranieri: meno votato al folklore e alla tradizione rispetto a qualche anno fa e più desideroso di trovare autori e opere capaci di spiazzare e stupire. Molto più inquietante è invece la bocciatura che viene dalle candidature ”tecniche”, quelle in cui fino a pochi anni fa spopolavano maestri delle luci (Di Palma, Storaro, Spinotti), delle scene (Ferretti, Lo Schiavo), dei costumi (Canonero, Arrighi). Qui il verdetto dell’anno anticipa una cruda verità: il nostro ricambio generazionale va a rilento, l’appeal internazionale dei nostri artigiani declina per mancanza di reciproca conoscenza con l’industria estera; la celebrata medietà infine dei nostri prodotti recenti esalta la professionalità qualificata, ma scoraggia l’eccezionalità delle collaborazioni tecniche.

Si dirà che il verdetto dell’Oscar, da sempre, non va automaticamente di pari passo con l’eccellenza e che è pur sempre un premio corporativo dell’industria. Vero, ma mai come quest’anno va notata una tendenza alternativa al kolossal, alla macchina ben confezionata ma vuota, in favore di un cinema di idee; tendenza aperta 12 mesi fa dall’outsider Kathryn Bigelow grazie al film “The Hurt Locker”. Per questo è giusto cogliere un campanello d’allarme per il nostro cinema che combatte valorosamente (e pur orfano dei sostegni pubblici) tra le mura di casa, ma troppo spesso si scopre fragile e nudo all’estero.

Una considerazione infine va fatta: benchè sempre più numerose le mitiche statuette premiano comunque pochi fortunati tra tanti legittimi concorrenti. E’ nelle cose che il cinema italiano (pur ancora inserito nel G8 delle scuole che contano) resti a bocca asciutta. Basta non abituarsi alla rassegnazione. Alla nutrita pattuglia di grandi firme italiane in corsa per il festival di Cannes (e poi di Venezia) la prima risposta: un legittimo sussulto d’orgoglio che potrebbe segnare anche la prossima corsa all’Oscar.

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