Banca Etruria, pm: “Vertici prestavano soldi a se stessi”

Banca Etruria, pm: "Vertici prestavano soldi a se stessi"
(Foto d’archivio)

AREZZO – Dirigenti che ottenevano soldi in prestito per se stessi, ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia, false fatturazioni per consulenze mai eseguite: sono i reati che la Procura di Arezzo contesta a Banca Etruria, uno dei quattro istituti coinvolti in un quasi-crac evitato solo grazie al decreto legge “salva banche” del governo Renzi. Banca Etruria, in particolare, è la banca in cui lavorava il padre del ministro Maria Elena Boschi. 

Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera spiega come avrebbe funzionato (secondo l’accusa) il meccanismo del “prestito a sé stessi”:

In particolare nel dossier degli ispettori di Bankitalia veniva evidenziato come pratiche di finanziamento per 185 milioni si siano svolte in situazioni di «conflitto d’interesse» generando 18 milioni di perdite. E subito dopo si parlava del ruolo di Rosi e di due pratiche di finanziamento intestate a Nataloni: una da 5,6 milioni di euro riguardante la società «Td Group» finita in sofferenza, una da 3,4 milioni di euro senza però l’indicazione dell’azienda. Quanto basta — secondo l’accusa — per procedere per «omessa comunicazione del conflitto di interessi» in relazione all’articolo 2391 del codice civile che riguarda proprio gli «interessi degli amministratori».

Su questo istituto toscano sono tre i filoni di inchiesta su cui si indaga: uno riguarda il presunto conflitto di interessi che ha avuto origine dalla relazione della Banca d’Italia riguardo al commissariamento di Banca Etruria nel febbraio scorso. Questo filone, spiega Gianluca Paolucci sulla Stampa, coinvolge anche alcuni membri dell’ultimo Consiglio di amministrazione, che avrebbero ricevuto fondi per 140 milioni. Soldi, quindi, prestati dalla Banca in cui loro lavoravano a loro stessi.

Nella relazione di Bankitalia vengono citati l’ex presidente Lorenzo Rosi e l’ex consigliere Luciano Nataloni. A Rosi, presidente della coop edile La Castelnuovese, viene contestato, scrive Paolucci, “il finanziamento poi incagliato concesso da Etruria alla società Città di Sant’Angelo per la costruzione di alcuni outlet alle porte di Pescara”, che avrebbe dovuto essere realizzato proprio dalla sua coop. A Nataloni viene invece contestato un prestito da 5,4 milioni alla Td Group.

Ci sono poi altri due filoni su cui indaga la Procura aretina. Il primo ipotizza il reato di ostacolo alla vigilanza, risale al marzo del 2014 e trae origine dalla relazione degli ispettori della Banca d’Italia del 2013. Questo filone di indagine è chiuso e a giorni dovrebbero arrivare le richieste di rinvio a giudizio. La Procura contesta la rappresentazione scorretta della reale situazione della banca, una situazione patrimoniale deteriorata, e anche, nello specifico, l’operazione immobiliare fatta nel 2012 sugli immobili del gruppo, che vennero ceduti al consorzio Palazzo della Fonte con una plusvalenza per i conti di quell’anno.

Solo che, scrive Paolucci sulla Stampa,

“tra prestiti a soci di Palazzo della Fonte e garanzie alle banche che finanziano il consorzio, alla fine il rischio resta in capo alla banca aretina. Che paga – la banca e non il consorzio – anche le spese di manutenzione e servizi”.

In quel caso la banca finanziò indirettamente con 10,2 milioni alcuni dei soci, scrive sempre Paolucci: 2,5 milioni alla Farmainvest, 3,9 milioni alla Mineco Real Estate, 3 milioni alla Findi Investimenti. Per finanziare l’operazione il consorzio Palazzo della Fonte prese in prestito 49,3 milioni da un pool di banche. E secondo Bankitalia le clausole del contratto sono tali che il rischio di inadempienza resta a Banca Etruria. Spiega Paolucci:

“Ricapitolando, su 75 milioni pagati dal consorzio per il 90% del veicolo degli immobili di Etruria, 10,2 milioni arrivano dalla stessa banca e altri 49,3 sono dalla banca garantiti. Un bell’affare”.

L’altro ed ultimo, almeno per il momento, filone dell’inchiesta aretina riguarda alcune presunte false fatturazioni emesse per consulenze pagate da Etruria che però, sostiene la Procura, non vennero mai effettuate. Si tratta di 233mila euro andati alla Methorios Capital, altro socio del consorzio Palazzo della Fonte, legato anche ai fondi Optimum del finanziere Alberto Matta, il cui nome compare anche nell’inchiesta sulla Popolare di Vicenza, legando così per altri via i due istituti in procinto anni fa di fondersi tra loro e adesso entrambi nella tempesta.

 

 

 

 

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