Eternit, disastro ambientale fu ma la prescrizione…da sentenza a caso politico

Eternit: familiari sconcertati, "vergogna, vergogna"
Eternit: familiari sconcertati (foto Ansa)

ROMA – Da una parte il dolore e la rabbia dei parenti delle vittime, dall’altro la questione politica: presto si discuterà di prescrizione anche in Parlamento. Nei giorni successivi alla sentenza della Cassazione, che ha annullato la condanna a 18 anni del magnate elvetico Stephan Schmidheiny, il caso Eternit continua a far discutere.

Per i giudici dell’Alta Corte, il processo Eternit si è occupato solo delle questioni ambientali. Un disastro accertato dai giudici, che si sono però dovuti arrendere davanti alla prescrizione, iniziata con la chiusura degli stabilimenti del gruppo nel 1986.

Nelle pagine con cui la procura di Torino ha notificato la chiusura della fase preliminare dell’inchiesta bis sull’Eternit, preludio di una nuova richiesta di rinvio a giudizio, ci sono i nomi di 256 morti di Eternit . L’accusa per Schmidheiny, stavolta, è omicidio volontario pluriaggravato. E la pena, se sarà considerato colpevole, potrebbe arrivare all’ergastolo.

Schmidheiny era consapevole, sostiene la procura di Torino, che il mesotelioma pleurico, l’asbestosi, il carcinoma polmonare sono correlati all’inalazione delle fibre killer. Sapeva che le sue aziende “presentavano condizioni di polverosità da amianto enormemente nocive”. Non gli sfuggiva che i soldi investiti per ridurre quella polvere mortale “erano esigui”. E nonostante ciò, è stato “il mero fine del lucro”, il denaro, il business, a guidarlo nelle sue decisioni fino al 1984, l’anno in cui le sue fabbriche smisero di produrre manufatti cancerogeni e di avvelenare l’Italia. Perché di disastro ambientale si tratta, è una verità giudiziaria riconosciuta dalla Cassazione.

“Il reato è stato commesso con dolo dall’imputato – ha spiegato il pm Guariniello – quindi anche se è caduto in prescrizione non cambia nulla per la responsabilità accertata dell’imputato”.

Fabio Tonacci e Ottavia Giustetti su Repubblica, raccontano come nel 1976,

c’era una certa coscienza diffusa che l’amianto provocasse danni anche gravi alla salute, non era chiaro però fino a che punto fosse pericoloso inalare le fibre. «Anche una sola può causare il mesotelioma», sentenziò anni dopo un convegno di esperti a Helsinki. Eppure, l’imprenditore svizzero decise lo stesso di non fermare le macchine, di continuare a produrre ondulati, camini, ferodi e quant’altro si poteva fare con l’Eternit, il materiale “destinato a resistere in eterno”. Ma con le 253.605 pagine di atti, contenenti referti medici di centinaia di vittime, consulenze tecniche di epidemiologi, testimonianze, filmati dell’Istituto Luce, la procura è sicura di poter dimostrare che Schmidheiny volle «risparmiare sulle gravose spese indispensabili per una radicale revisione degli impianti». Quegli investimenti che avrebbero potuto almeno limitare le conseguenze.

E gli impianti di sicurezza non vennero mai fatti.

Nei quattro siti «non vennero costruiti i macchinari di aspirazione », «non era adeguata» la ventilazione dei locali, non c’erano sistemi di pulizia degli indumenti di lavoro, le procedure di lavoro non erano pensate per «evitare la manipolazione e la diffusione dell’amianto». Stando a quanto ricostruiscono i pm, quelle aziende trattavano il veleno come fosse acqua fresca. Non furono forniti gli apparecchi di protezione agli operai, non furono organizzati controlli sanitari adeguati, nemmeno venivano allontanati «i lavoratori a rischio per motivi sanitari».

La campagna di disinformazione.

Tranquillizzare i cittadini pur sapendo quale fosse la realtà dei fatti, è stato, sempre secondo l’accusa, il leitmotiv dell’intera sua gestione. Mescolare un po’ di verità ad alcune falsità decisive. Tra gli operai faceva distribuire manuali per spiegare che l’amianto era innocuo se maneggiato correttamente. «Confidava che questa disinformazione impedisse alla gente di acquisire una esatta consapevolezza dei rischi — dice Guariniello — e quindi rendere sistematicamente difficile per le vittime la difesa». Un caso su tutti è quello dell’assunzione di una società milanese di pubbliche relazioni, la Bellodi. Raccontò il pm in aula, durante il primo processo: «Aveva organizzato una sorta di intelligence per monitorare ogni attività che in Italia riguardasse Schmidheiny». La Bellodi era arrivata a infiltrare anche i sindacati e le nascenti associazioni delle vittime. «Pagava 5 milioni di lire al mese un’ex collaboratrice del periodico della diocesi di Casale Monferrato perché riferisse con largo anticipo ogni mossa dell’associazione », raccontò in aula l’avvocato di parte civile Sergio Bonetto.

 

 

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