CHIETI – Fare causa per ingiusto licenziamento dopo aver rubato dalla cassaforte dell’ufficio poco meno di 15mila euro ed essere reintegrato con tanto di arretrati. Sembra un passaggio del film di Checco Zalone ‘Quo vado’, con il protagonista impegnato a difendere il posto fisso, mentre più prosaicamente è il sogno realizzato di un impiegato delle Poste che ha trovato in una giudice del tribunale di Chieti un’insperata alleata. La storia arriva da Vasto, dove in un ufficio postale un impiegato di vecchia data candidamente sfila dalla cassaforte dell’ufficio 14.500 euro. In contanti. Siamo nel 2012. In breve il furto viene scoperto e, grazie ad un’intercettazione, con lui anche il colpevole. A questo punto l’impiegato-ladro viene prima trasferito e poi sospeso. Ma contro la sospensione i suoi legali presentano appello, ottenendo il reintegro.
Passano un paio d’anni e, con i tempi della Giustizia, arriva anche la sentenza penale: colpevole. Che significa che l’impiegato in questione ha ufficialmente preso i soldi dalla cassaforte. Non viene condannato però per peculato, reato più grave, ma ‘solo’ per appropriazione indebita. Il che non cambia il fatto che è lui, materialmente, ad aver aperto la cassaforte di cui aveva le chiavi e sfilato le banconote. A questo punto le Poste, forti di una sentenza di un tribunale, licenziano l’impiegato infedele. E qui c’è l’errore. Un licenziamento ineccepibile secondo il buon senso e, non se ne abbia la giudice Ilaria Pozzo, probabilmente anche secondo la legge. Solo nel ‘Paese dei contrari’ di Gianni Rodari i ladri vengono condannati e quindi riassunti là dove hanno rubato.
La “colpa” delle Poste sarebbe stata un eccesso di garantismo. Il giudice del Lavoro imponendo il reintegro con tanto di pagamento degli arretrati, dice: “La società – è scritto nella sentenza – disponeva sin dal 2012 di tutti i dati sufficienti per procedere a una contestazione disciplinare”. L’attesa “della sentenza di condanna”, quindi, “non si giustifica”: la “contestazione formale” è “irrimediabilmente tardiva”. In pratica la teorizzazione del licenziamento in flagranza. In un Paese dove la presunzione d’innocenza, sacrosanta, arriva fin quasi alle soglie del giudizio divino e dove lo stesso impiegato-ladro, sospeso con quegli stessi “dati sufficienti per procedere a una contestazione disciplinare” viene reintegrato, un fulgido esempio di follia burocratica.
La Legge, le regole dovrebbero proteggere la società, cioè tutti gli individui che la compongono, dai comportamenti scorretti. Dovrebbe difendere gli onesti dai disonesti proprio per permettere a quel famoso ‘contratto sociale’ di rimanere in vigore. Non viceversa, non consentire ai furbi di sfruttare cavilli e azzeccagarbugli. Per questo è lecito dubitare che la sentenza di Chieti sia non solo contro il buon senso ma anche contro la Legge stessa. Almeno contro lo spirito di quella, che certamente non può essere quello di consentire a chi ha sottratto denaro altrui (peraltro da un ufficio pubblico) di passare indenne e anzi avere anche il rimborso degli stipendi arretrati. Come si deve sentire il collega di quest’impiegato disonesto che lo vedrà tornare in ufficio.
Secondo la giudice che ha reintegrato il ladro probabilmente come uno sciocco se si possono prendere 15.000 euro dalla cassaforte e passare un annetto a casa in attesa di giudizio il tutto senza nemmeno perdere un giorno di stipendio. Che senso ha allora servire i clienti in fila con raccomandate, pacchi e spedizioni? Nessun brivido e anche meno remunerativo. Nel mondo del calcio, dove loro malgrado gli arbitri rivestono il ruolo di giudici, quando uno di loro prende decisioni discutibili e plateali si dice che voglia essere protagonista. La giudice di Chieti di certo ha avuto il suo momento di notorietà.