Pizzini tra Matteo Messina Denaro e uno 007 del Sisde

Pubblicato il 16 Marzo 2010 - 09:59 OLTRE 6 MESI FA

L'identikit di Matteo Messina Denaro

Matteo Messina Denaro, presunto capo di Cosa Nostra e superlatitante, aveva un’intensa corrispondenza con una spia del Sisde. La novità è emersa dall’operazione “Golem II” che lunedì ha portato all’arresto di diversi affiliati, tra cui il fratello Salvatore.

Si sono scoperti molti pizzini tra Messina Denaro (nome in codice “Alessio”) e un certo Antonino Vaccarino (nome in codice “Svetonio”). Vaccarino è uno strano personaggio nato a Corleone nel 1945 ma da tempo residente a Castelvetrano dove ha fatto l’insegnante di lettere ed è stato consigliere comunale, assessore ed anche sindaco. Una copertura perfetta per un affiliato del Sisde. Un affiliato che faceva il doppio gioco: ai servizi segreti prometteva la cattura di Matteo Messina Denaro, al boss prometteva aiuti politici.

Nel 1997, poi, fu condannato a 6 anni e mezzo per traffico di stupefacenti. Una volta tornato in libertà, lo troviamo a gestire il cinema Marconi, l’unico di Castelvetrano e a cercare l’avventura spionistica.

Vaccarino “agganciò” Matteo Messina Denaro attraverso il fratello Salvatore, che era un suo alunno al liceo di Castelvetrano. Da allora iniziò il carteggio col nome in codice “Svetonio” affibbiatogli dallo stesso boss di Cosa Nostra che gli fornì anche le “istruzioni per l’uso”: rispettare maniacalmente le date che vengono comunicate per rispondere e, soprattutto, bruciare i «pizzini». Osservanza quest’ultima disattesa, visto che il Sisde, nel 2007, ha trasferito alla magistratura l’intero carteggio.

Con i pizzini “Svetonio” tentava di ottenere la benevolenza e l’amicizia del boss. Utilizzava tutti i sotterfugi retorici, come quando scriveva parole poetiche sul padre morto di Messina Denaro: il «tuo eccezionale genitore» «ritengo abbia fatto della sua vita l’esaltazione dell’equilibrio». Poi lo blandiva coi discorsi sui «politici indegni» e arrivò a spingere “Alessio” a sbilanciarsi parecchio, come quando il boss definì «venditore di fumo» il presidente del Consiglio dell’epoca (Silvio Berlusconi).