Cile, Operazione San Lorenzo: un’ora ciascuno per “vestirsi” e risalire. Un’Odissea lunga un giorno per i 33 minatori

Pubblicato il 12 Ottobre 2010 - 16:56 OLTRE 6 MESI FA

Operazione San Lorenzo: durerà tutto un giorno, almeno un giorno. Comincerà nella notte italiana, in un’ora ancora non decisa tra l’una e le cinque del mattino. Comincerà laggiù in Cile, sul “tetto” della miniera dove sono sepolti ma vivi in 33. Comincerà con quattro o cinque che scendono anzichè risalire: esperti di soccorso in condizioni estreme che andranno giù per seicento e passa metri dentro la mini galleria scavata nella montagna. Ogni discesa durerà circa 15 minuti. Il “commando della salvezza”, perché di questo si tratta, sa di rischiare qualcosa: tutto è pronto ma nulla è sicuro. Scenderanno con lo stesso mezzo, lo stesso “ascensore” con cui poi risaliranno tutti: quella capsula Fenix, quel tubo attrezzato che pesa 250 chili, è lungo quattro metri a ha un diametro di 53 centimetri. Dei quattro metri, due e mezzo sono il “modulo vitale”, la “bolla di vita” che deve proteggere chi scende e poi chi risale.

Quando il “commando della salvezza” sarà giù, laggiù dove i 33 aspettano e sopravvivono, chiameranno il primo, il primo che dovrà risalire. Non sarà il più debole o il più provato, sarà uno dei “forti”, di quelli che hanno resistito meglio. Serve che sia così, serve che il primo sia lucido e pronto a reagire. Capace di osservare e descrivere quel che succede, capace di guidare chi dall’alto guida la capsula Fenix. Il primo e poi tutti gli altri impiegheranno un quarto d’ora circa nella risalita. Quindici minuti per 622 metri: quaranta metri al minuto, meno di un metro al secondo. Un ritmo veloce, un tempo relativamente breve per chi è fuori, un tempo che non finisce mai di finire per chi resuscita con e dentro quella capsula. Prima dei quindici minuti della risalita per ognuno saranno necessari 45 minuti di preparazione, di “vestizione”. Ogni minatore dovrà indossare una tuta speciale, dotarsi di riserva di ossigeno, di due sistemi di comunicazione con l’esterno, di sensori capaci di monitorare il battito cardiaco e la respirazione, di telecamera che inquadra e trasmette le immagini dell’esterno, della via in cui la capsula scorre. Quarantacinque minuti in cui nel cuore e nella testa di ognuno ansia e speranza, paura e coraggio si mischieranno e misureranno.

Poi, “vestiti per la salvezza”, dentro il cilindro. Immobili più che possono, tesi come non mai. Pregando chi prega, con gli occhi chiusi o con le pupille sbarrate a cercare di intercettare il primo riflesso di luce, immaginato prima ancora che visto. Un’ora per ogni minatore, in una lunghissima catena di montaggio per la vita e della vita. Trentatre divisi in tre gruppi, con i primi che partono e gli altri che aspettano, per ore. Per ore trepidando e tremando per quelli che sono già partiti e per se stessi che aspettano di partire. Non sarà facile aspettare, anche se l’interminabile conto alla rovescia sarà scandito e alleviato dai primi risultati: uno ce l’ha fatta, è là sopra, due ce l’hanno fatta, tre ci sono riusciti…Ad ogni intoppo, rallentamento, il quarto, il quinto, il sedicesimo, il ventesimo avranno il terrore da tenere a bada, il terrore che la catena si interrompa, si spezzi, che il proprio turno non venga mai, che il biglietto della vita che stringono in mano con il relativo numero d’ordine divenga improvvisamente non valido.

Ore e ore in cui il comune destino dei 33 improvvisamente si divaricherà: il primo che è giù lassù già indossa gli occhiali speciali per resistere alla luce del sole, luce che ferisce i suoi occhi lontani da mesi dal sole. Il primo già visitato dal medico, salutato dal presidente Pinera, mandato nel recinto di “compensazione”. Dove aspetta il secondo e il terzo e il quarto, fino all’ottavo. Poi, composto il primo gruppo dei riemersi, il contatto con i parenti e quindi l’elicottero verso l’ospedale. E il secondo gruppo, quelli del secondo gruppo, ancora laggiù, qualcuno già nel cilindro, qualcuno che si sta “vestendo”, qualcuno che impasta i suoi piccoli passi con gli enormi minuti che lo separano dal “suo” momento. E il terzo gruppo, quello degli ultimi, immobile, a cercare una impossibile calma. E tutti a scrutare con l’udito più che con la vista ogni cigolio della fune d’acciaio che tira sù, della capsula, della montagna, della miniera. Sarà un gigantesco reality televisivo, reality su scala mondiale appena un metro sopra, oltre l’ultimo dei 622 nel tunnel. Ma sotto quel metro sarà Odissea, paura del noto e dell’ignoto, ore e ore in cui vita e morte si guardano in faccia e si sfidano. Qualcosa che nessuna tv potrà e saprà mai inquadrare e raccontare, qualcosa di molto simile a quanto l’uomo vive due sole volte nella vista, quando nasce e quando muore. Solo con se stesso, solo anche se c’è intorno il mondo a guardare.