David Rohde testimonia la inefficienza dei pakistani. 3

Pubblicato il 20 Ottobre 2009 - 15:10| Aggiornato il 3 Novembre 2009 OLTRE 6 MESI FA

David Rhode è catturato in Afghanistan e arriva in Pakistan come ostaggio dei talebani in un piccolo pick-up. Quando passa la frontiera col Pakistan, la macchina si trova davanti un posto di blocco improvvisato, e un soldato dell’esercito ferma il veicolo su cui Rhode e i suoi rapitori viaggiano.

Il talebano che siede accanto a Rhode carica il fucile e ordina al giornalista di coprirsi il viso con la sciarpa. Intanto il guidatore esce dal veicolo e va a parlare col soldato. Tutto finisce in fretta, il guidatore ritorna, la macchina riprende il cammino. Direzione prigionia, dove Rhode, due volte Pulizter, una delle firme prestigiose del New York Times, sarà tenuto per ben sette mesi, prima di riuscire a fuggire rocambolescamente e riconquistarsi così la libertà.

L’episodio la dice lunga sul controllo esercitato dalle forze regolari pakistane sulle regioni tribali che confinano con l’Afghanistan. Quando la macchina dei talebani riprende la strada, Badruddin il talebano chiede al giornalista: «Lo sai cos’era quello? ». E sorridendo: «L’esercito pakistano».

Un cessate il fuoco, spiega, è stato concordato tra il talebani e l’esercito: tutti i civili devono uscire dalle macchine quando un convoglio militare si avvicina. Ma per i veicoli dei talebani, solo il guidatore è obbligato a uscire. La prassi, si capisce, permette ai talebani di nascondere ostaggi e militanti islamici stranieri.

Nel Nord Waziristan, Rhode, insieme ad un giornalista afghano e alla loro guida, sarà detenuto per lunghissimi mesi. Le sue impressioni su quel soggiorno drammatico rivelano un quadro penetrante di una realtà lontanissima ma costantemente presente nel mondo dell’informazione.

A volte, nelle notti invernali i comandanti Haqquani (questo il nome della tribù a cui fa capo il protettorato talebano locale) venivano a visitare la casa dove i prigionieri erano custoditi. Si parlava. Le conversazioni erano dominate dall’incrollabile fede che gli Stati Uniti facessero una guerra contro l’Islam.

Era, racconta Rhode, un universo logico pieno di contraddizioni. I comandanti biasimavano l’Occidente per l’uccisione di civili salvo celebrare poi gli attacchi suicidi che uccidevano musulmani innocenti. Denunciavano amaramente i missionari cristiani, ma ogni giorno il giornalista era spinto alla conversione.

Vedevano il giornalista, e tutto l’Occidente, come moralmente corrotti e intenti solo a perseguire bassi piaceri. L’America aveva invaso l’Afghanistan, secondo la loro visione, per diventare più schifosamente ricca di quanto già fosse.

A volte nelle guardie, quando i capi erano assenti, si intravedeva un lampo di umanità. Queste erano per la maggior parte giovani tra i 20 e i 30 anni. Qualcuno era cresciuto come rifugiato in Afghanistan. Tutti avevano un’educazione limitata, nessuno aveva superato gli studi primari, nessuno si era mai spinto oltre l’Afghanistan e il Pakistan. Restavano tutto il giorno nell’edificio, ascoltando la radio e scandendo «Dio à grande!».

Cercavano modi di rompere la rigida monotonia. Dopo cena, cantavano canzoni Pashtum per ore e obbligavano Rhodes a fare altrettanto. Una notte, a malincuore, il giornalista fu costretto a cantare una canzone che faceva così: «Voi avete bombe atomiche noi abbiamo kamikaze».