La trappola del talebano.David Rohde racconta. 2

Pubblicato il 3 Novembre 2009 - 09:30 OLTRE 6 MESI FA

TALEBANI3La macchina in cui David è prigioniero prende lentamente la corsia di sinistra, non quella di destra. Il giornalista spera che sia solo il momentaneo gesto spericolato del guidatore. Ma è invece la prova che non sono più in Afghanistan. Sul lato della strada spunta un cartello scritto in urdu. Non ci sono più dubbi, sono arrivati in Pakistan. La loro vita è in grave pericolo.

Il Nord Waziristan, insieme agli altri distretti delle aree tribali, è un emirato islamico dove da anni Islamabad ha rinunciato a intervenire. Prima del 2001 il distretto era governato dagli anziani locali, i capi delle tribù. Era in Afghanistan che esisteva un emirato islamico. Con l’invasione americana in Afghanistan e con la relativa perdita di migliaia di vite umane, l’emirato ha semplicemente attraversato il confine.

Grazie ai suoi sette anni da reporter nella regione David sa bene a cosa sta andando incontro e sa benissimo che questo è il peggior posto al mondo per essere un ostaggio americano. Il governo degli Stati Uniti non ha nessuna influenza in questo lembo di terra.

Dal 2004 decine di missile sparati da droni americani hanno uccisi centinaia di militanti e di civili. Da anni i Talebani hanno organizzato rapimenti di ostaggi afghani, pakistani e occidentali scambiando vite in cambio di riscatto o commettendo omicidi per un poco di pubblicità.

La prima casa pakistana dei prigionieri è a Miram Shah, la capitale del Nod Waziristan. Due grandi camere da letto che danno su un piccolo cortile interno. Una camera ha anche un bagnetto per la doccia, separato dalla toilette.

Al primo giorno, David esce dal bagno e trova Tahir con un taglio sul polpaccio, come se qualcuno avesse disegnato una linea rossa attraverso la sua gamba. Un militante waziri ha estratto il suo coltello per asportare un pezzo di polpaccio di Tahir. Voleva, ha detto, mangiare la carne di un afghano che collabora con gli occidentali. Una delle guardie di Atiqullah l’ha bloccato.

Nei giorni di prigionia un lungo corteo di militanti islamici visita la casa per osservare i prigionieri. Come animali in uno zoo. Tutti dimostrano un odio senza fine per gli Stati Uniti. Li accusano di ipocrisia, doppio gioco, di fare una guerra contro l’Islam. Di parlare di democrazia e di diritti civili per poi torturare o detenere senza processi cittadini musulmani. Li attaccano per la loro politica in Iraq e Afghanistan e per il loro sostegno a Israele.

Alcuni giudizi sono paranoici. Si afferma che l’undici settembre è stato organizzato dalla Cia e dal Mossad e che gli americani prendono le donne afghane per farle prostituire nei campi militari.

Insieme ai visitatori, un giorno arriva anche Badruddin, figlio di un comandante talebano famoso durante la guerra contro l’Unione Sovietica. Anche lui sembra avere un ruolo nelle trattative. Dice che deve preparare un video da distribuire ai media. Sorridendo mostra a David sullo schermo di una telecamera le immagini di un prigioniero francese, Dany Egreteau. E’ in catene e sul volto ha segni di frustate. La camera lo mostra mentre dice affranto : « E’ un inferno. Vi prego di pagare. »

La sera stessa Atiqullah dice a David che potrà chiamare sua moglie. Sono ormai dieci giorni che non ha notizie di lei. Il talebano gli dice che dovrà enfatizzare la sua condizione tragica; ha fretta di raggiungere un accordo. La conversazione, attraverso un telefono satellitare, durerà pochi secondi. David farò solo in tempo a dirle le condizioni del rilascio.

Le ultime parole di Kristen, sposata al giornalista da soli due mesi, sono : «Ti amo. Prego per te ogni giorno. Non ti preoccupare, tutto andrà bene».

Questa frase abiterà, sostenendolo, lo spirito di David per mesi.

I primi giorni passano senza problemi. Le condizioni della prigionia si rivelano perfino umane. Le guardie passano a David giornali pakistani in lingua inglese. Bevono acqua in bottiglia. Le aree tribali stesse sembrano più sviluppate di quanto si potesse immaginare. Anche i talebani si rivelano più sofisticati. Navigano su Internet e ascoltano per ore Azadi Radio, una stazione animata dal governo americano.

Badruddin sembra ufficialmente incaricato delle trattative. Visita i prigionieri diverse volte. Ogni volta si parla di un rilascio imminente. Poi il talebano scompare per giorni. Riappare ma ogni volta sembra casuale. Non si intravede più nessun senso di urgenza. Un giorno, uscendo dalla porta, rivolto a David, lo rassicura: «Non ti preoccupare. Non ti uccideranno. Sei una gallina dalle uova d’oro. »

Pochi giormi prima di Natale Atiqullah, il capo talebano che li ha teso l’agguato, finalmente ritorna dopo una lunga assenza. Porta delle notizie spettacoli. « Siamo qui per liberarvi » – dice. David è euforico. La sua fiducia in Atiqullah non era stata, infine, mal posta. Ecco il talebano moderato e ragionevole che si aspettava.

La sera la conversazione prende una strana piega. Atiqullah afferma che i militari americani stavano organizzando un’operazione per arrestare Abu Tayyeb, il talebano che aveva concesso l’intervista a David. Dice anche di avere le prove che David, poco prima dell’ora dell’incontro, ha mandato messaggi in Arabia Saudita. Così avrebbe informato i miliari americani del luogo dell’incontro. Secondo il talebano non ci sono dubbi, David è una spia americana.

Il giorno dopo la strana conversazione, Tahir e Asad, approfittando dei momenti in cui le guardie si assentano, rivelano entrambi a David che Atiqullah è in realtà Abu Tayyeb. Lo hanno saputo fin dal giorno del rapimento, ma non hanno mai osato dirlo. Abu Tayyeb ha promesso di decapitarli se riveleranno la sua vera identità.

Abu Tayyeb ha organizzato l’intervista, li ha traditi e ha finto di essere un comandante chiamato Atiqullah. Si scopre così come il talebano abbia mentito fin dall’inizio. Non ci si può fidare dei talebani.