Crollo oro: Cina rallenta, inflazione cala

Pubblicato il 16 Aprile 2013 - 10:34| Aggiornato il 18 Gennaio 2023 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Crollo oro: Cina rallenta, inflazione cala. L’oro precipita sotto i 1.400 dollari l’oncia sui mercati internazionali (“nel lunedì nero si è registrato il più grande balzo all’indietro in trenta’anni”), Wall Street Journal), toccando i minimi da marzo 2011, il petrolio continua a calare ma i grandi gruppi specializzati nel trading delle materie prime possono comunque rallegrarsi per gli strepitosi successi che hanno raggiunto finora. Negli ultimi dieci anni, infatti, grazie al boom delle commodities, i big del settore hanno incassato complessivamente l’incredibile somma di 250 miliardi di dollari.

Insomma è finita la pacchia anche per investitori del calibro di John Paulson, guru degli hedge fund, che a causa della flessione delle quotazioni dell’oro, avrebbe già dilapidato una ricchezza personale di 300 milioni di dollari. Il fatto che l’oro scenda è imputabile a diversi fattori, in primo luogo il venir meno della minaccia inflazionistica, essendo rientrati i timori che le aggressive politiche di espansione monetaria condotte dalle banche centrali. In ordine sparso, visto la volatilità di certe previsioni, troviamo il rallentamento del Pil cinese, la circostanza che Cipro metta all’asta parte del suo patrimonio aurifero per rifondare il suo debito, le voci su indicazioni europee agli stati in difficoltà a sfruttare l’oro in dotazione per rispettare gli impegni assunti, prima fra tutti l’Italia (dove peraltro questa opzione è sempre sul tavolo, mentre oggi il Sole 24 Ore pubblica un dossier, “Bankoro, un piano per sfruttare le riserve auree”, piano che ambisce a smuovere l’Europa magari in direzione degli Eurounionbond).

Si sa che nei forzieri della Banca d’Italia sono custodite 2.451,8 tonnellate di oro, la quarta concentrazione aurea del mondo, dopo gli Stati Uniti, la Germania, il Fondo Monetario Internazionale e prima della Francia. “Tutti temi questi però che non sono in grado di giustificare un simile tonfo. In realtà stanno circolando dei rumors in questo momento secondo cui qualche operatore, banca probabilmente, sta cedendo oro in misura massiccia, circa 6 miliardi di dollari di controvalore”, è l’opinione degli analisti di Ig riportata da Vito Lops sul Sole 24 Ore.

Una mazzata alle quotazioni dell’oro è arrivata sicuramente da Goldman Sachs, che consiglia agli investitori di vendere, dopo aver realizzato finora  i maggiori guadagni in un secolo: complice l’inflazione calante e la rivalutazione del dollaro, la banca d’investimenti è sicura che il prezzo dell’oro nel 2014 scenderà a quota 1270 dollari. Secondo George Soros, semplicemente l’oro non è più un bene di rifugio.

Un’inchiesta approfondita e dettagliata del Financial Times, la prima del suo genere in questo campo, rivela che dal 2003 l’utile netto di queste società è stato superiore a quello delle grandi banche di Wall Street messe insieme, a quello di un gigante come General Electric e anche maggiore di quello di Toyota, Bmw, Ford, Volkswagen e Renault messe insieme, beneficiando dell’ascesa della Cina e degli altri Paesi emergenti. Tra i giganti del settore, che operano nelle contrattazioni di materie prime come oro, petrolio, grano, caffè, zucchero, spiccano l’anglo-elvetica Glencore, le olandesi Vitol e Trafigura, le americane Adm e Cargill: quest’ultima non è quotata in Borsa ed è considerata l’azienda a controllo familiare più grande del mondo; quindi le giapponesi Mitsubishi e Mitsui, la francese Louis Dreyfus Commodities, la Wilmar di Singapore e la Noble Group di Hong Kong.

Tutti nomi, questi, per lo più sconosciuti al grande pubblico, spiegano gli analisti, ma che hanno raggiunto un livello di influenza e potere nell’ultimo decennio mai visto prima. L’anno scorso il fatturato complessivo di questi dieci gruppi è volato a 1.200 miliardi di dollari, pari quasi al Pil di Spagna o Corea del Sud. I ricavi della sola Vitol nel 2012 sono schizzati a 303 miliardi di dollari, poco meno del Pil della Danimarca. Secondo i critici, l’improvvisa impennata dei guadagni di questi gruppi è dovuta esclusivamente a manovre speculative che provocano distorsioni nei prezzi dei generi alimentari e delle materie prime.

E quindi spingono per una maggiore trasparenza sul modus operandi del settore. L’indagine del quotidiano londinese evidenzia tuttavia che anche l’industria delle commodities “sta affrontando dei venti contrari” a causa della crisi e del rallentamento della crescita nei paesi emergenti, ed una più intensa e crescente competizione. Negli ultimi anni i colossi bancari di Wall Street e della City hanno aperto divisioni per il trading delle commodities. JPMorgan e Morgan Stanley, ad esempio, scambiano ingenti volumi di materie prime. L’anno scorso l’utile netto di Glencore è sceso a 3,06 miliardi di dollari dal record di 5,2 miliardi del 2007.