Fiat sciolta in Chrysler: tutto previsto e calcolato da Marchionne

di Mauro Coppini
Pubblicato il 5 Febbraio 2011 - 18:30 OLTRE 6 MESI FA

Alla fine quello che più sorprende è la sorpresa con la quale è stata accolta la dichiarazione di Sergio Marchionne sul futuro dell’integrazione tra Chrysler e Fiat.

C’è davvero da stupirsi se una società nella quale gli azionisti sono in maggioranza americani e la cui quotazione avverrà necessariamente alla borsa di New York sia inevitabilmente destinata a collocare a Detroit il suo quartiere generale ?

Ma questo è solo un dettaglio. Si dice spesso che alle parole devono seguire i fatti perché l’enunciazione di un programma si trasformi davvero nel primo passo verso la sua concreta attuazione. Bene, l’amministratore delegato, ha seguito la strada inversa: prima i fatti poi le parole.

Prima la progressiva depauperazione della componente italiana della Fiat e poi, con un paio d’anni di anticipo, perché politici e sindacati possano prendere atto di una decisione ormai irrevocabile, l’annuncio del definitivo trasferimento a Detroit. Con una Fiat destinata ad annullarsi in Chrysler realizzando finalmente il sogno coltivato dalla famiglia Agnelli all’indomani della morte dell’Avvocato. E quelli che oggi si stupiscono di tanta brutalità sono gli stessi che hanno inneggiato alla rinascita di una azienda basata sul recupero della produttività. Trascurando il fatto che se gli impianti italiani denunciano una percentuale di utilizzo rispetto alla massima capacità tecnica del 37% , il problema non sono gli operai ma, piuttosto, la scarsa competività del prodotto.

Ma il prodotto è stato congelato perché congelati sono gli investimenti ad esso dedicati. Con i modelli di stile continuamente bocciati da Marchionne e rispediti al mittente a consolidare l’immagine di un manager incontentabile sul piano del prodotto ma in realtà sacrificati alla confezione di un bilancio in grado di abbagliare gli analisti di borsa e fare titolo sui quotidiani.

Senza prodotto la quota in Europa ha continuato a scendere ma siccome i modelli per quel mercato sono realizzati essenzialmente negli stabilimenti italiani sono quest’ultimi a soffrire di più e di conseguenza sono più indifesi rispetto ad una strategia pronta a denunciarli come diretti responsabili della mancanza di risultati.

Una geniale inversione del rapporto tra causa ed effetto sul quale si basa il gioco di Marchionne. In questo modo la Panda a Pomigliano ed il SUV a Mirafiori diventano generose concessioni verso impianti che nulla hanno fatto per meritare tanta attenzione. Si induce un complesso di sudditanza grazie al quale Marchionne potrà chiedere sempre di più ben sapendo che un’eventuale rottura non sarebbe altro che un ulteriore capo di accusa nei loro confronti.

Perché a ben vedere “fabbrica italia”, più che un atto di fede verso un paese che in cento anni ha fornito un non trascurabile contributo allo sviluppo della Fiat, è un ostaggio destinato ad essere sacrificato non appena siano stati raggiunti gli obiettivi previsti. Che stanno tutto dall’altra parte dell’atlantico.

E infatti qual è la logica di produrre la Panda a Pomigliano? Si tratta di un prodotto “sotto schiaffo” di una concorrenza spietata basata essenzialmente sul prezzo perché le tecnologie sono generalmente condivise. Nel segmento “A”, quello delle piccole utilitarie, le esitazioni di acquisto vengo influenzate da soli 100 euro di differenza sul prezzo di listino. Può davvero uno stabilimento italiano battere su questo terreno i coreani della Kia-Hiunday ? E ha davvero senso produrre a Mirafiori un SUV basato su una meccanica importata dagli Stati Uniti e che alla fine dell’assemblaggio verrà in gran parte reimportata da dove è venuta. Termini Imerese è stata chiusa per molto meno.

In questo caso la competitività e la produttività, però, non sono più un problema. Vale la pena di rimetterci se in cambio si ha totale libertà di azione sul territorio. E chi si permetterà di commentare il calo delle vendite che, in attesa del risultato dei futuri investimenti, progredirà con crudele determinazione per tutto 2011. E chi farà domande su quanto realistico sia un piano di recupero di quote a fronte di una competività mai così feroce?

La sorpresa di chi ha appoggiato incondizionatamente Marchionne ha più il sapore di un alibi piuttosto che quella di una ritrovata consapevolezza e anche per questo fatica a tramutarsi in sdegno. Marchionne ha trovato la via d’uscita dall’Italia e un compiacente asilo negli USA. Ma per loro sta arrivando la resa dei conti.