ROMA – La legge italiana, datata in questo caso 1970, cioè vecchia di quasi mezzo secolo, stabilisce che a prescindere da tutto, in caso di separazione, il coniuge più ricco è tenuto a partecipare al mantenimento dell’altro. Poco o nulla conta la presenza o meno di figli e ancor meno importa la durata del matrimonio, basta una settimana da marito e moglie per guadagnare un vitalizio. Ancor meno di quanto serve ai tanto odiati parlamentari per maturare il loro.
Per la serie “sapevatelo”, partendo da un caso di cronaca, è il docente di diritto privato Carlo Rimini a sottolineare tramite La Stampa come una norma a dir poco fuori dal tempo condizioni le nostre vite. In tutta Europa e nel resto del mondo civilizzato esiste certo l’istituto dell’assegno di mantenimento, ma è questo, come i diritti che il coniuge matura al momento del divorzio, proporzionale ai sacrifici fatti a favore delle esigenze familiari. Una norma di buon senso che però non vale nel nostro Paese.
La storia da cui parte l’analisi di Rimini è quella di due coniugi, entrambi professionisti, avvocato lei e mercante d’arte lui, che dopo appena un anno di nozze si accorsero di non esser fatti l’uno per l’altra. Avendo entrambi la propria vita professionale e non avendo figli la separazione prima, e il divorzio poi, furono poco più che una formalità. Non fosse che per ottenere il divorzio, anche a fronte di una matrimonio di appena 12 mesi, dovettero attendere i canonici tre anni.
Arrivati davanti al giudice però lei, forse perché forte di una conoscenza legislativa che le derivava dalla sua professione, chiese che le venisse riconosciuto un assegno di mantenimento. Perché aveva sacrificato la sua professione per i figli? Naturalmente no. Perché aveva sacrificato lavoro o altro per il marito? Nemmeno. Perché senza reddito e quindi incapace di mantenersi? Assolutamente no. Semplicemente perché una legge del 1970, appena ritoccata a metà anni ’80, le consentiva di chiederlo. Non a lei in quanto moglie, si badi bene, ma a lei in quanto parte più povera degli ex coniugi. Se infatti fosse stato l’ormai ex marito a guadagnare meno, l’assegno avrebbe potuto firmarlo e non riceverlo, lei.
Se una legge c’è, per quanto discutibile, va ovviamente applicata e così, il giudice, stabilì che l’assegno in questione doveva essere di euro 500. Il marito, l’ex, comprensibilmente fece appello e qui, altre follie del nostro sistema giudiziario, entrano in ballo. Tra appelli, ricorsi e via dicendo la vicenda giudiziaria dei due è durata 17 anni a fronte, ricordate, di una matrimonio durato 12 mesi. E la conclusione è che il nostro mercante d’arte paga oggi, a 20 anni dal matrimonio, oltre 4000 euro l’anno all’ex consorte.
La lentezza della giustizia non è però il problema centrale di questa storia. Altra è la questione: è possibile che solo per essersi sposati, in assenza di figli, in assenza di compromessi e necessità, dopo la separazione un coniuge debba all’altro un assegno sino a che morte non li separi? Rimini rivolge questo interrogativo ai legislatori, ponendo la questione della necessità di un aggiornamento della norma, ma riconoscendo che purtroppo la velocità di questi è spesso simile a quella dei peggiori tribunali. In attesa, parafrasando una celebre pubblicità, non un diamante, ma un matrimonio, con relativo assegno, è per sempre….
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