Pensioni 2016 sale l’età (4 mesi). Quattro piani per andarci prima, ma chi paga?

Foto d'archivio
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ROMA – Dall’anno prossimo, dal 2016, la soglia di età per andare in pensione salirà di 4 mesi e anzi, per le donne impiegate nel privato, aumenterà addirittura di 1 anno e 10 mesi. Allo studio del governo diverse misure per consentire di abbandonare invece prima il lavoro e di ricevere un assegno pensionistico prima dei 66 anni che sono i requisito anagrafico cui sempre più pensionandi devono ottemperare. Ben quattro i piani per poter mandare la gente in pensione prima dei 66. Ma la questione principe è: chi paga? Perché ogni piano made in governo o in sindacati o in opposizione costa e neanche poco.

“Una nuova modifica alle regole sulle pensioni – racconta Lorenzo Salvia sul Corriere della Sera – ‘all’ordine del giorno e il punto di decisione coinciderà con la nuova legge di Stabilità’. Dopo l’intervista al nuovo presidente dell’Inps, Tito Boeri, è il ministro del Lavoro Giuliano Poletti a tornare sull’argomento, confermando che l’uscita anticipata dal lavoro con un assegno previdenziale più leggero è ‘una delle opzioni possibili’. Nel merito della nuova legge di Stabilità si entrerà dopo l’estate. Ma nel cantiere sempre aperto della riforma delle pensioni i lavori sono già in corso, anche a un punto più avanzato di quello indicato dallo stesso Poletti”.

Passando dalla teoria alla pratica, in ballo sarebbero quattro ipotesi, tutte affascinanti ma tutte con almeno un punto critico. La prima di queste sarebbe quella di introdurre la possibilità di abbandonare il lavoro anche prima del raggiungimento dell’età richiesta, legando questa scelta ad una contestuale riduzione dell’assegno pensionistico. Nell’idea originale che ha aperto la strada a questa ipotesi, e cioè il disegno di legge presentato dal Pd all’inizio della legislatura con la firma di Pier Paolo Baretta, poi diventato sottosegretario all’Economia, e Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera, la ‘flessibilità’ pensionistica avrebbe introdotto anche la possibilità di andare in pensione dopo il raggiungimento dei limiti di età, ottenendo in questo caso un bonus nell’assegno. Ma anche senza il premio, che è già escluso, il punto debole della proposta sono ancora un volta le coperture. Senza una decurtazione pesante, l’ipotesi uscita anticipata non sarebbe infatti finanziariamente sostenibile.

Insomma una pensione presa a 62 anni e tagliata solo del due per cento come da progetto sballa di molti miliardi il bilancio pubblico. In questi casi non è vero che i conti sarebbero pareggiati tra andar in pensione prima e percepire assegno minore. Con il due per cento o giù di lì di penalizzazione si tratterebbe di tornare, senza dirlo, al pre Fornero. Sarebbe di fatto un abbassamento generale dell’età pensionabile, una cosa che di questi tempi neanche Tsipras in Grecia. Per pareggiare vi conti tra la pensione prima e la pensione ridotta bisognrebbe ridurre l’assegno di davvero tanto, non due ma forse venti per cento. E, ovviamente, non si può fare, non ha senso.

La seconda ipotesi è quella del reddito minimo. Soluzione accennata dallo stesso presidente dell’Inps Boeri e soluzione che garantirebbe agli esodati, quei lavoratori che dopo la riforma Fornero sono rimasti o rischiano di rimanere senza stipendio e senza pensione, un reddito minimo appunto sino allo scattare della pensione vera e propria. In questo caso le criticità, anzi la criticità è quella del rischio rappresentato dall’indebita appropriazione. E’ cioè facile immaginare che molte sarebbero le truffe di quanti proverebbero ad ‘infilarsi’ tra le fila dei beneficiari senza averne i requisiti. Garantire un salario, un reddito minimo a coloro che restano senza stipendio e non hanno ancora pensione ha già prodotto la moltiplicazione irrefrenabile degli esodati che in origine erano un tot, ora un tot moltiplicato per dieci. Ma soprattutto le esperienze di massa su autocertificazioni Isee e su esenzioni ticket sanitari dimostrano che il reddito minimo farebbe presto, in quantità preoccupante e intollerabile, a diventare abuso da millantata indigenza

Terza soluzione, quella del prestito. E cioè il cosiddetto prestito pensionistico, studiato anche dal governo Letta ma mai attuato. Ipotesi che in sostanza significa dare a chi esce in anticipo un piccolo assegno, tempo fa si era parlato di 700 euro al mese, che il pre pensionato dovrebbe restituire a rate una volta raggiunti i requisiti per l’uscita normale. In questo caso il problema non sarebbe finanziario quanto burocratico, o meglio, euro-burocratico. Anche in questo campo infatti valgono i paletti di Bruxelles sulla flessibilità, raccontati dallo stesso Boeri. In questo caso l’Unione europea vedrebbe solo l’aumento immediato della spesa ma non il fatto che più in là si risparmierebbe perché l’assegno sarebbe più basso per recuperare la somma anticipata.

Infine, l’ultima soluzione, la quarta, quella dell’integrazione del minimo. Di cosa si tratta lo spiega ancora Salvia sul Corriere:

“Chi ha cominciato a lavorare prima del 1995 aveva comunque a disposizione un paracadute: anche se i contributi versati erano pochi, la sua pensione non poteva essere più bassa di una somma pari a 502 euro, con l’eventuale differenza a carico dello Stato. Venti anni fa la riforma Dini ha eliminato quel paracadute”.

Si tratterebbe quindi di reintrodurre una simile soluzione ma, in questo caso, il problema è assolutamente evidente: come si finanzia?

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