GENOVA – Di nuovo la Liguria tagliata in due da un fiume di acqua e fango che precipita dal cielo e dalla montagna, fa diventare bestie feroci e ringhiose rii e torrenti dai nomi sconosciuti e dolci che si tramutano in killer distruttori. Può un fiume, che si chiama appunto Magra per la sua secchezza storica di rigagnolo che scende verso il suo estuario tra Toscana e Liguria, trasformarsi in un Rio delle Amazzoni dalla portata gigantesca capace di spianare via terra, campagna, coltivazioni, paesi, fabbriche come è successo nelle ultime ore? Possono gli altri torrenti che stenti a trovare sulla cartina geografica di questa parte della Liguria, tra le Cinque Terre e il bordo versiliese toscano, dilagare fino a spezzare in due ferrovia, autostrada, Aurelia, strade provinciali, sentieri come è durato per 48 ore e ancora sta durando: la Regione tagliata a fette e divisa per due? E da quella parte un cimitero color fango, acqua sporca, laghi scuri pieni di macerie dove c’erano fabbriche, paesi, strade, borghi con i campanili che spuntano dall’acqua come in certe foto ingiallite del Polesine, madre anni Cinquanta di tutte le alluvioni italiane.
Borghetto Vara, Cassana, Monterosso, la leggendaria Monterosso della costa Cinque terre, come Vernazza e Brugnato e Ameglia sono le croci del cimitero dalla parte ligure del disastro: almeno sei morti, numerosi dispersi, portati via dal frullatore dell’ultima alluvione dalle case, dai campi, sbriciolati come da uno tsunami che, però, arriva da dietro dalla collina, dalla montagna, non dal mare, il quale, davanti, diventa giallo marrone e circonda i borghi devastati come con una cintura che ti stringe, onde alte, sporche, piene di detriti galleggianti, lo Stige non lo specchio limpido delle cartoline.
Quei rii, quei torrenti corrono come cascate violente, stretti a fatica tra le case. Succede a Monterosso, dove gli argini sono palazzi magari secolari strinati da quel turbine scuro. E a monte dove l’acqua ha dilagato i pezzi delle case, delle fabbriche, delle strade, perfino delle autostrade sono come un risiko smontato e sporco, come uno scherzo su cui volano elicotteri di salvataggio pronti ad atterrare su cumuli di fango e rovine, dove quel frullatore ha depositato quanto ha strappato dalla campagna, dalle case sventrate, dai ponti sbriciolati, dai sentieri cancellati, dal Paradiso per eccellenza delle Cinque Terre, quello della Passeggiata dell’amore, profanato forse irrimediabilmente: letti, materassi, armadi, cucine, giocattoli, automobili come sollevate da una mano gigantesca e posate dove capita sotto il cielo che ha quella luce grigia assassina del dopo disastro. Monterosso non c’è più bombardata dalle frane, segata dal suo rio esploso.
La stima della pioggia caduta sull’area del Magra è stata di 367 milioni di metri cubi, il doppio della capacità del lago del Vajont, il volume d’acqua transitato alla foce è stato di 150 milioni di metri cubi, trenta volte superiore alla norma.
Una alluvione all’anno: ecco il destino della Liguria epicentro di tutte le alluvioni, madre di tutte le alluvioni, una all’anno quando va bene, perché quando va male la catastrofe dal cielo si moltiplica e colpisce da Ventimiglia fino, appunto, al Magra più e più volte, prendendo alle spalle questa striscia di terra tra il mare e una montagna-collina quasi a perpendicolo su città, paesi, villaggi, borghi e una costa dove i corsi d’acqua sfociano nella salsedine, nascosti quasi da distese di canne, quando non sbucano da cunicoli di cemento e coperture segrete, come nel cuore di Genova dove il presunto fiume Bisagno si incapsula sotto terra per un paio di chilometri prima di ritrovarsi sulla spiaggia della Foce.
Questa volta, anno 2011, è toccato alla provincia di La Spezia, ma l’anno scorso la maledizione dell’acqua dal cielo aveva colpito la delegazione genovese di Sestri Ponente, una volta definita la Stalingrado d’Italia per le sue roccaforti di fabbriche e porto e cantieri dove sventolava la bandiera rossa del Pci più duro d’Italia. Allora il killer era stato un rio che si era gonfiato dopo 12 ore di pioggia e poi era esploso nelle strade e nelle piazze sommergendo tutto perché sul suo corso c’era un palazzo di cinque piani, in via Giotto, proprio nel mezzo dell’alveo una specie di diga di cemento. Piangono ancora i sestresi, che hanno perso aziende e negozi sotto l’acqua marrone del rio Cantarena, scatenato e aspettano invano i risarcimenti che le ultime generazioni di genovesi e liguri indistintamente attendono più o meno da quaranta anni, chi più, chi meno, da Albenga a Spezia, a Sarzana, passando per savona e ovviamente con Genova capitale dell’acqua, della pioggia, della distruzione dal cielo.
L’alluvione arriva sempre, quasi puntuale come una maledizione biblica tra settembre e ottobre, quando il clima dolce della Riviera si rompe e l’equilibrio termico va a carte quarantotto, tra i crinali degli Appennini e il mare, tra le Alpi che partono dall’entroterra di Savona e fanno da muraglia verso Nord.
L’alluvione arriva sempre e colpisce come un colpo di maglio che lascia morte e distruzione, ogni anno ha le sue croci, la sua distruzione, il suo stato di calamità, i suoi risarcimenti, chiesti, attesi e spesso mai arrivati.
Tutto cominciò nell’ottobre del 1970 non perché prima non ci fossero state alluvioni, ma perchè quella che colpì allora Genova in tutta la sua estensione dal Ponente di Voltri, al cuore cittadino, dove appunto va in mare il Bisagno, fece quasi trenta morti e marchiò non solo la città per sempre, ma introdusse il tema di un disequilibrio idrogeologico che il nuovo sviluppo urbanistico delle città, ma anche dei paesi aveva irreversibilmente provocato.
Tutta colpa delle colate di cemento della urbanizzazione post bellica, delle case sulle colline,in città, delle seconde case sulle Riviere nei paesi, dei monti rosicchiati senza criterio, dei fiumi e dei rii e dei torrenti ingabbiati nei cunicoli sotterranei, tra le case, dentro alla pancia delle città dei paesi, dei piccoli borghi come se fossero mansueti corsi d’acqua dalla portata ridicola?
Tutta colpa delle violenze alla terra, alla campagna, alle colline in discesa di una regione dove la distanza tra il mare e la vetta dello spartiacque appenninico e alpino si misura anche in centinaia di metri? Tutta colpa del clima che fa scontrare le correnti fredde del Nord con le mitezze della evaporazione marina, alla fine di estati magari calde e lunghe come l’ultima?
L’alluvione del 1970, quando la storia della maledizione comincia, si innescò a Ponente e dopo una precipitazione eccezionale di 350 millimetri d’acqua in dieci ore scatenò i due torrenti di quella periferia estrema, che esondarono nella serata del 1 0ttobre e misero sott’acqua la più occidentale delle delegazioni genovesi, ma esplose nella sua geometrica potenza poche ore dopo nel cuore di Genova, dove l’onda di piena invase il centro della città, uscendo dagli argini sempre secchi del Bisagno quasi alla foce, prima che la valanga d’acqua finisse in quel cunicolo della Foce.
Erano le 14 e la città era piegata da settantadue ore di acqua dal cielo. Quell’onda lenta, inesorabile mise sott’acqua i quartieri di fianco alla stazione ferroviaria di Brignole, arrivò quasi fino al mare di Corso Italia, invase i sotto passaggi del centro nevralgico, fece le sue vittime, arrivò a alluvionare le tipografie del giornale-città “Il Secolo XIX” che si fermarono per un giorno. Morirono come topi lungo il Bisagno e anche nel cuore della città sommersa dall’onda lunga che portò i corpi in mare. Li trovarono quindici giorni dopo, quei corpi di morti per pioggia, davanti alla costa francese di Tolone, dove la corrente del Golfo ligure li aveva trasportati.
Da allora nulla è poi mai più stato come prima. L’alluvione è in agguato sul tetto dell’Appennino ogni fine estate, ogni autunno e se questa che tiene in ginocchio La Spezia è forse la più dura, dopo il fatidico 1970, le cronache ne contano tante altre, almeno una per anno con le sue distruzioni e i suoi morti. In questi anni la prevenzione è andata indietro e non avanti: la montagna è sempre stata più abbandonata, meno curata e così non ha più trattenuto l’acqua ma l’ha sparata a valle come è successo a Brugnato e Borghetto Vara e l’ha sbattuto negli alvei dei torrenti e dei fiumi gonfiandoli a dismisura tra gli argini stretti. Gli argini, gli alvei sono diventati spesso foreste amazzoniche, di alberi e cespugli che al primo colpo d’acqua hanno ostruito i corsi, trasformandoli, gonfiati da piogge monsoniche, in bombe a tempo. Quella geografia sconosciuta dei fiumi e dei torrenti da Ventimiglia a Spezia l’abbiamo scoperta a colpi di disastri, l’Entella, il Boate, il Leira, il Merula, il Letimbro e chissà quanti altri nella lista dei killer.
Ma è a Genova che le tragedie dell’acqua si sono consumate con un ritmo incalzante, mentre il territorio veniva sempre più devastato e mai curato in una città dove le colline sono muraglie di cemento a gradoni, poco spazio tra le case e, appunto quei rii a decine, nascosti nel ventre delle fondamenta cittadine, tra fogne, piccole strade, creuze a perpendicolo che precipitano su una costa, su un porto che si estende per decine di chilometri da Ponente a Levante. E allora giù morti, giù vittime, anche singole croci come quella di quell’anziana annegata negli anni Ottanta nel caveau di una banca di Sampierdarena dove l’alluvione l’aveva sorpresa, Come quella ragazza, ghermita dalla furia di un torrente esondato sulle alture di Oregina, quartiere collinare, che aveva trasformato una discesa di cemento in un toboga infernale: lei schiacciata tra due automobili capovolte dal rio impazzito. Come quella nonna e quel nipotino annegati nella loro casa sventrata dal fiume Sturla, perchè era costruito impunemente in mezzo all’alveo, sfida alla siccità intermittente di cui mai ti puoi fidare.
Una casa in mezzo alla foce di un torrente, come quella di Sestri, via Giotto dell’ultima alluvione, anno 2010, che ora ha tutti i timbri per essere demolita alla trentesima alluvione, all’ultimo morte, all’ultimo miliardo di danni che nessuno risarcirà mai del tutto, perchè la colpa è del clima che cambia e di Giove Pluvio. Non degli uomini che costruiscono, costruiscono, cementificano, alzano barriere e guardano poco il cielo. Forse per paura e per vergogna. E poi, come oggi, contano i morti e faticano perfino a trovarli sepolti dal fango sotto casa.
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