Berlino, 9 novembre 1989: cade il Muro, comunismo iniziò lenta agonia

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 4 Novembre 2014 - 11:38 OLTRE 6 MESI FA
Berlino, 9 novembre 1989: cade il Muro, comunismo iniziò lenta agonia

Il muro di Berlino

ROMA – Venticinque anni fa un moto impetuoso scosse la Germania, l’Europa e il mondo. Una nazione “finta”, la DDR, in un attimo venne cancellata e di essa restarono gli orrori perpetrati dai vassalli più fedeli dell’Unione Sovietica.  Nella notte tra il 9 ed il 10 novembre 1989 Berlino si riempì di grida, rumori, canti.  La folla diventava con il passare dei minuti immensa riempì le strade della città attraversandole con una frenesia quasi disumana. Su tutte una parola d’ordine che non tardò a contagiare chiunque: “Die Mauer ist weg”, il Muro è caduto. Tedeschi dell’Ovest si riversarono all’Est e tedeschi dell’Est si ritrovarono all’Ovest. La frontiera più crudele della storia dell’umanità non esisteva più. Nel mondo fino ad allora cosiddetto libero dominava l’incredulità. Nessuno poteva immaginare che undici mesi più tardi ci sarebbe stata una sola Germania.

Il segnale dell’evento epocale, incredibile a dirsi, venne dal portavoce del Partito comunista della DDR, Guenter Schabowski, il quale, interpretando il pensiero e lo stato d’animo dell’ufficio politico di quelli che erano stato servili ed atroci pretoriani di Mosca nell’universo concentrazionario sovietizzato, alla domanda di un giornalista italiano se le frontiere sarebbero state aperte entro un relativamente breve lasso di tempo, rispose seccamente di sì. Incalzato sui tempi, non si fece pregare e disse: “Subito!”. Fu quello il segnale che i berlinesi attendevano. Anche coloro che avevano perso la speranza videro un sogno avverarsi; un sogno coltivato dal 13 agosto 1961, quando il Muro venne eretto a separare il settore sovietico dai settori occidentali della città.

“Di tutta la sua vita, la sua morte fu la sua opera più bella”, ha scritto lo storico britannico Timothy Garton Ash riferendosi al Muro, ma soprattutto alla caduta dell’Impero Sovietico. La sua fine fu lenta, progressiva, inesorabile. Nessuno può dire quando cominciò, ma tutti videro i segni dello sgretolamento nell’implosione economica e sociale dell’Urss, nella fine della guerra in Afghanistan che i sovietici abbandonarono con la coda tra le gambe, nel messaggio di libertà e di speranza che lanciò ai popoli oppressi dell’Est il Pontefice Giovanni Paolo II, nel dissenso disperato fino alla follia in alcuni casi di Solidarnosc. Ma soprattutto nella dichiarazione di Gorbaciov che suonò quasi come un segnale di resa, poco prima dello straordinario evento: “Noi non ci opporremo a quando accadrà”. Una svolta. Di più: il segno della ripresa del cammino della storia per popoli nelle cui anime si era fermata. L’ordine di Mosca non sarebbe stato ristabilito a Varsavia, a Praga, a Budapest, a Bucarest. L’ordine di Yalta, insomma, sarebbe stato fatto a pezzi dagli eredi di coloro che lo stabilirono schiavizzando milioni di esseri umani.

Quando la mattina dell’11 novembre, alcuni berlinesi, ancora euforici per ciò che soltanto due giorni prima li aveva proiettati in un’altra dimensione, videro approssimarsi al muro, un signore attempato, munito di un violoncello, non credettero ai loro occhi. Sedutosi davanti alle macerie di quella costruzione ormai cadente, su una sedia malferma imprestatagli da un abitante del quartiere, l’uomo, intorno al quale nel frattempo s’era radunata una piccola folla silenziosa, prese a suonare una suite di Bach, di carattere gioioso; poi un’altra più solenne, “in memoria di coloro che hanno lasciato qui le loro vite”. Così Mstislav Rostropovitch, sotto uno sbrecciato muro segnato da incomprensibili graffiti, celebrò la sua liberazione e quella del suo mondo prigioniero di una vendetta consumata contro l’Europa.

Un mese dopo Vaclav Havel, l’eroe della primavera di Praga, pronunciò davanti al Parlamento di Varsavia un discorso tra i più vibranti della storia della libertà riconquistata e disse tra l’altro: “Al momento l’Europa è divisa. Ed è divisa anche la Germania. Sono due facce della stessa medaglia: è difficile immaginare un’Europa che non sia divisa in una Germania divisa, ma è anche difficile immaginare la Germania riunificata in un’Europa divisa. I due processi di unificazione dovranno svilupparsi parallelamente, e anche subito se possibile…I tedeschi hanno fatto molto per noi tutti: essi hanno cominciato da soli a demolire il muro che ci separa dal nostro ideale: un’Europa senza muri, senza sbarre di ferro, senza filo spinato”.

Dopo un quarto di secolo, sono rimaste le grida di gioia nelle nostre orecchie di occidentali un po’ distratti, ma l’Europa di Havel e dei berlinesi non è ancora sostanzialmente unita. Andare oltre il comunismo non è stato facile, costruire in un sistema di libertà una patria comune è certamente ancora difficile. Perché i postumi di quelle ferite sanguinanti dalla fine della Seconda Guerra mondiale agli inizi degli anni Novanta dello scorso secolo, si avvertono ancora.  Al punto che Stephan Courtois, ideatore e curatore del Libro nero del comunismo, così ha sintetizzato gli effetti della caduta del Muro: “Rimane un’immensa tragedia che continua a pesare sulla vita di centinaia di milioni di uomini e che caratterizza l’entrata nel terzo Millennio”. Come gli si può dare torto?

L’ “immensa tragedia” è ancora viva, per quanti sforzi si facciano al fine di rimuoverla. Il più orribile e devastante totalitarismo che la storia abbia conosciuto, produsse cento milioni di morti. Si può credere davvero che l’Ottantanove, data “fatale” per l’umanità e specialmente per l’Europa, possa essere messo tra parentesi e sostanzialmente relegato nel retrobottega degli orrori che l’ideologia ha provocato?

Ce lo chiediamo perché da un po’ di tempo sembra di assistere ad una soffice minimizzazione di quegli eventi che più di vent’anni fa sconvolsero la geografia mondiale, mentre si ha l’impressione che si tenda a ricordare soltanto la liberazione di popolazioni che per decenni (oltre settant’anni quella russa) hanno subito il giogo del sovietismo con la complicità del mondo politico ed intellettuale di buona parte del Globo, a cominciare da quei “buoni europei” che tanto a lungo hanno tollerato gli assassinii, le deportazioni, le carestie programmate, la miseria, l’intolleranza leninista, i gulag staliniani e post-staliniani. Tra i “buoni europei”, naturalmente, non bisogna dimenticare scrittori celebri, gente dello spettacolo, intellettuali che a vario titoli hanno edificato i loro monumenti sull’apologia del terrore. Nessuno ha speso finora una parola per mettere le cose a posto e dire a chiare lettere che la cultura europea è stata per buona parte complice nell’edificazione di tutti i muri, materiali e psicologici, che sono stati edificati dal 1917 in poi. I conti, dunque, debbono ancora essere completati. E quando ci si scandalizza di fronte alle tesi di Ernst Nolte sui contrapposti totalitarismi del Ventesimo secolo, nel tentativo di assolvere quello stalinista, si ha la sensazione che il Muro di Berlino non sia ancora stato abbattuto.

Sono soprattutto gli eredi (a vario titolo, intellettuali e politici) di quei partiti comunisti occidentali che profusero grandi passioni nell’esibire la loro sudditanza nei confronti non soltanto dell’Unione Sovietica, ma del comunismo in genere variamente declinato a mostrarsi ancora reticenti nell’affrontare il tema del post-comunismo alla luce dei danni provocati dall’ideologia che ha insanguinato buona parte del mondo. E c’è ancora chi si rifugia, quasi per giustificarsi, in una visione del marxismo come strumento di progresso e di emancipazione dei popoli. Un modo come un altro per vanificare quel grido dei berlinesi che festeggiavano piangendo e ridendo la riconquistata libertà.

Le macerie raccolte sono ancora sotto i nostri occhi. Mentre la valutazione storica e morale non è stata ancora definitivamente compiuta, se è vero come è vero che ciò che continua ad accadere in Russia (sotto gli sguardi un po’ ebeti degli occidentali disinteressati ai diritti umani), dominata dall’autocrate Vladimir Putin e dai suoi uomini quasi tutti provenienti dal Kgb,  è ascrivibile alla logica del sovietismo pratico. Infatti, cosa attestano i frequenti omicidi politici, la russificazione della Cecenia, la sottomissione dell’Ossezia e dell’Inguscezia, il tentativo di riprendersi la Georgia, la politica iper nazionalista ed il conflitto aperto con l’Ucraina, le minacce a lituani, lettoni ed estoni? E i giornalisti, gli intellettuali ed i professionisti dissidenti che cadono sotto i colpi di killer senza volto (la Politkovskaja è stata la prima di una lunga lista di morti ammazzati) non sono ascrivibili ad un sistema di potere che rimanda allo stalinismo più feroce? L’attività spionistica e di delazione è tornata in auge in tutti i centri russi, la democrazia viene umiliata da elezioni farsesche, gli stili di vita in città come Pietroburgo per esempio presentano tutti gli elementi di una colonizzazione culturale paracomunista che si riproduce grazie ai vecchi apparati i quali hanno soltanto messo un po’ di belletto, rimanendo sostanzialmente uguali.

La primavera gorbacioviana e le speranze disseminate  (e poi annegate) di Eltsin sono lontane. Il sovietismo come pratica di potere non è morto, ma agisce per altre vie restando sostanzialmente lo stesso a riprova che se il comunismo come ideologia è  sepolto nella tomba della storia, la sua eredità politica persiste nella prassi di coloro che nel suo ambito si sono formati.

Una riflessione su tutto questo e sulle mutazioni del marxismo nel mondo andrebbe fatta dopo due decenni nel corso dei quali si è creduto che tutto fosse cambiato, mentre in realtà, in alcuni Paesi è mutata soltanto la forma del potere anche se nessuno si azzarda più per decenza a citare Lenin, Stalin o i classici del comunismo a supporto di politiche che si combinano maldestramente con l’apologia di un ben singolare “mercato” come nella Cina popolare, Paese che sta facendo strame dei diritti dei popoli dal Tibet allo Xinjiang dove gli uiguri vengono sistematicamente massacrati nell’indifferenza di quello stesso mondo libero che plaudì alla caduta del Muro.

L’ultimo Muro che ancora deve accade, dunque, è quello culturale. Rimuovere non serve a niente: i fantasmi possono sempre ripresentarsi sotto forme inimmaginabili. Bisogna riconoscere e ricordare. E nello stesso tempo sottoporre ad un rigoroso vaglio critico ciò che ha generato il comunismo stesso, attraverso un’opera di demistificazione dei miti che lo hanno preceduto.