Seconda Repubblica: tra web e Beppe Grillo, pensando allo stipendio, naufragio

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 22 Maggio 2013 - 05:54 OLTRE 6 MESI FA

Il governo degli opposti – rara e discutibile proiezione della democrazia rappresentativa che sancisce la sua impotenza e si arrende al risultato elettorale – è la figurazione plastica del crepuscolo della Seconda Repubblica.

Questa nacque sull’onda del sistema maggioritario il cui principio è chi prende più voti governa, gli altri stanno all’opposizione.

Strada facendo ha perduto la sua spinta propulsiva e, grazie ad una legge elettorale che non saprei se più stupida o perniciosa (l’una e l’altra, probabilmente), si è “suicidata” al punto che il responso delle urne non è più in grado di determinare maggioranza e minoranza.

Come dire: la democrazia dell’incertezza nella quale prevale la compromissione di tutte (o quasi) le forze politiche le quali in “stato di necessità” sono costrette a stare a insieme, riducendo al minimo le differenze (e le diffidenze) pur di assicurare un esecutivo al Paese. Ma siamo proprio sicuri che la funzione di governo si esaurisca nella palude istituzionalizzata?

Non credo. Essa ha, per definizione, una prospettiva più alta che si estrinseca nella programmazione di un avvenire per la comunità della quale è la guida. E com’è pensabile che si possano indirizzare progetti necessariamente a lunga scadenza prescindendo dalla coesione intorno ad un progetto stante le differenze insormontabili che esistono naturalmente tra le forze politiche?

Di questa debolezza dell’esecutivo presieduto da Enrico Letta ovviamente tutti sono consapevoli.

E se le “larghe intese” possono avere un senso per un periodo brevissimo (e programmato) al fine di raggiungere uno scopo (la legge elettorale in questo caso), certamente non è realistico pensare che l’esperienza prosegua fino ad immaginare riforme costituzionali (che oltretutto non sono nella sua disponibilità, ma in quella esclusiva del Parlamento, nonostante l’impropria presenza – e non è la prima volta – nell’esecutivo di un ministro per le Riforme) o misure economiche particolarmente impegnative sulle quali occorrerebbe la convergenza di tutti; convergenza che ovviamente non c’è.

Insomma, la Seconda Repubblica tira le cuoia vent’anni dopo, senza aver risolto un solo problema, neppure quello che sembrava più facilmente alla portata, vale a dire la governabilità in un sistema decisionista e partecipativo fondato su una legge elettorale maggioritaria appunto e, magari, sull’elezione diretta del capo dello Stato, nella versione semi-presidenzialista alla francese o presidenzialista all’americana.

In realtà non è stato fatto alcunché. Il bipolarismo è stato interpretato in maniera distorta e “muscolare”; i partiti politici, lungi dal riformarsi, hanno riprodotto nel loro ambito i vizi della vecchia partitocrazia con l’aggravante di essere diventati autoreferenti, incapaci di discutere, più “monarchici” che “carismatici”, mallevadori di oligarchie chiuse.

Da questo stato di cose non poteva che sortire la “sorpresa” di forme di ribellismo sterili, come Beppe Grillo e il “grillismo” pure esso contagiato dalla tentazione autocratica: decide tutto il capo non-eletto, si arroga il diritto di stabilire ciò che è legittimo e ciò che non lo è, non ammette discussioni, determina espulsioni e stabilisce perfino le prebende dei suoi parlamentari.

Non è opposizione al sistema, questa: è pura esercitazione di un potere che deriva dal web, usato in maniera discutibile e spregiudicata.

Lo stesso web che condiziona ormai la vita parlamentare soggiogata, come abbiamo visto in occasione della recente elezione del presidente della Repubblica, dai social network i quali, con pochi clic, determinano atteggiamenti che penetrano fin nelle fibre del Parlamento.

E’ la sconfessione più plateale della democrazia in nome di un assemblearismo dall’incerta legittimità.

E perciò anche sotto i colpi della “democrazia elettronica”, altrimenti detta e-democracy, muore la Seconda Repubblica dei cittadini, quella che immaginavamo potesse superare il partitismo strutturandosi secondo modelli partecipativi incentrati sulla meritocrazia e la gerarchia delle competenze.

Non sappiamo, per quanto non ci manchi la fantasia, che cosa accadrà all’atto di tirare le somme dell’esperienza della “vasta coalizione”.

Di sicuro nessuna riforma strutturale verrà approvata da un Parlamento che palesemente non è in grado di legiferare su materie complesse e “divisive”, come peraltro ha sostenuto con invidiabile candore il vice-premier Angelino Alfano nell’intervista rilasciata dal Corriere della sera il 19 maggio.

E neppure la salvaguardia della nostra precaria economia è ipotizzabile, proponendo i partiti che compongono la “strana maggioranza” ricette antitetiche.

Allora, prima che tutto deflagri, meglio fare una legge elettorale e se non si riesce a metterne in piedi una nuovissima si ripristini il Mattarellum, non so perché così veementemente avversato dal Pdl, che perlomeno funzionava, e si trovi il modo di tornare alle urne nella speranza che da esse venga fuori una chiara maggioranza ed un’altrettanto chiara opposizione.

Non è tempo di stagioni costituenti, come pure si vocifera. Ci vorrebbe ben altro clima. E se le forze politiche non fossero ridotte nello stato che sappiamo, si affretterebbero a varare una Assemblea costituente, invece di lambiccarsi con improbabili Convenzioni, che riformi le istituzioni attraverso l’intervento popolare.

Ma neppure di questo si osa discutere nelle casematte della partitocrazia dove la preoccupazione del posto da salvaguardare è prevalente su ogni altro aspetto della vita pubblica.

Muore così, d’inedia e di contraddizioni la Seconda Repubblica. Senza rimpianti, ma tra i rancori sedimentati lungo un ventennio i cui frutti sono raccolti in un governo dall’incerta durata e dalla ancor più problematica coesione. Neppure uno scrittore di horror politico avrebbe saputo immaginare di meglio. O di peggio, a seconda dei punti di vista.