Le classi degli emarginati e degli appagati

di Giorgio Oldoini
Pubblicato il 10 Luglio 2014 - 06:21 OLTRE 6 MESI FA
Le classi degli emarginati e degli appagati

“Lunchtime atop a skyscraper”, famosa foto scattata nel 1932 da Charles C. Ebbets

In passato numerosi scienziati e ricercatori hanno tentato di individuare le classi sociali in relazione al livello della loro mobilità.
Un progresso si è indubbiamente avuto attraverso la trasformazione delle classi da chiuse in aperte, cioè a carattere meritocratico. Le classi chiuse si sono avute in Italia fino ai primi del Novecento. Famosa la lettera di Bakunin agli italiani del 1871, nella quale¹ affermava che in Italia vi erano almeno cinque nazioni:

1) tutti i clericali, dal Papa all’ultima bigotta;
2) la consorteria o grande borghesia, nobiltà compresa;
3) la media e la piccola borghesia;
4) gli operai delle fabbriche e delle città;
5) i contadini.

È un peccato che Bakunin non sia riuscito a dar corso al suo estremo proposito di approfondire le ragioni per le quali “il pensiero, l’esperienza e la passione rivoluzionaria non si trovano assolutamente nelle masse²”.

Lo stesso Bakunin così commentava tali divisioni:
a) i clericali sono una classe permanente ancorché non ereditaria;
b) la grande borghesia controlla le principali proprietà e le transazioni industriali, commerciali, finanziarie e soprattutto le banche; è una vasta associazione di notabili che mira a derubare sistematicamente il paese e non aspira ad altro che a riempire le proprie tasche a danno della proprietà nazionale;
c) la medio-piccola borghesia rappresenta la classe che ha formato la storia per libertà, civiltà, progresso, nelle arti, nella scienza, nella letteratura ecc.;
d) gli operai si presentano come i temibili rivoluzionari socialisti;
e) chi lavora la terra è in realtà l’assoluta maggioranza della popolazione italiana (all’epoca 25 milioni) soggiogata dal clero piccolo-medio, attraverso la superstizione e la religione.

Quale è stata l’evoluzione da Bakunin ad oggi?

La moderna concezione di classe sociale è legata al livello di facilità con cui le persone possono accedere alla fascia del benessere, mentre un tempo l’appartenenza costituiva uno status che tendeva a essere permanente: ciò dipendeva anche dal fatto che la proprietà era terriera mentre ai nostri giorni è prevalentemente mobiliare e quindi con caratteristiche di maggiore volatilità. Il bene rifugio (l’oro, la moneta forte, la proprietà fondiaria) è ormai soltanto un mito in ogni parte del mondo. Il ricco di oggi ha perduto la caratteristica di essere stanziale.

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Prescindendo dalle situazioni elitarie che consentono nicchie di privilegio diffuse ma instabili, le posizioni di vertice sono oggi occupate dalle organizzazioni che hanno più facile accesso alle risorse pubbliche. Alla base della piramide si trova chi non è ammesso alla spartizione delle rendite di gruppo e che deve spesso accontentarsi di vivere ai margini del sistema sociale. Nelle nazioni più progredite il problema degli emarginati è di solito affrontato secondo schemi di tipo fatalista o interventista. I conservatori ritenevano inevitabile l’evento della povertà: il povero deve solo a se stesso e ad una sua scelta la condizione di miseria.
Sono ormai divenute un classico le considerazioni di Borroughs sui poveri:

Nel parlare di povertà non va dimenticata la distinzione tra questa ed il pauperismo. La prima è un male cui non si può sfuggire, cui molti sono spinti dalla necessità, anche di fronte alla grazia ed alla saggezza di Dio. È il risultato non dei nostri fallimenti ma delle nostre sfortune (…). Il pauperismo è la conseguenza di errori di ostinazione, di una sfacciata indolenza, di consuetudini viziose. È una miseria della natura umana, l’effetto deplorevole di principi e morali sbagliate³.

La categoria dei poveri diventa così una classe di vagabondi, fuorilegge e derelitti senza voglia di lavorare; è evidente che considerare ineluttabile l’esistenza di un certo numero di sacrificati significa rimuovere il problema, come fanno appunto le classi dominanti dei paesi di matrice capitalista per le quali la povertà è una fase di transizione che può essere facilmente superata attraverso l’impegno e il sacrificio (l’american way of life).

Le grandi opere umane, dalle piramidi egizie al Canale di Suez, sono sempre riferibili, oltreché all’ingegno di pochi, al sacrificio di una moltitudine di individui sottoretribuiti: del resto gli homeless, gli hobos e i tramps4 hanno rappresentato in America il cuore di un proletariato vagante alla ricerca del lavoro, che ha contribuito in modo determinante alla costruzione della ferrovia e all’espansione della frontiera statunitense5.

In Usa i senza dimora sono il prodotto delle periodiche crisi economiche e della necessità di far fronte ai conseguenti surplus della forza lavoro; il problema dei poveri è spesso risolto attuando il loro allontanamento fisico dal territorio del benessere: a New York la polizia scacciava gli homeless da Tompkins Park e i portieri cospargevano di ammoniaca il territorio del Grand Central Terminal per evitare che i mendicanti vi potessero dormire6. Anche nelle città italiane i barboni vengono scacciati dai sottopassaggi dove si rifugiano per ripararsi dal freddo.

Quando il divario delle condizioni di vita diviene incolmabile, i sacrificati si organizzano e occupano intere zone o addirittura parti significative di uno Stato come accadeva ai tempi della corte dei miracoli a Parigi, per i ghetti neri di New York o per i baraccati romani; queste sottoclassi periodicamente si ribellano alla loro condizione e danno vita a rivolte cruente.

In America Latina alla maggior parte dei poveri è precluso il mondo del lavoro e perfino delle piccole attività commerciali. Subentra allora il controllo della delinquenza, come in Perù, dove il 43% delle case è stata costruita da malavitosi mentre il 93% dei trasporti pubblici è controllato dalla criminalità organizzata. Di fatto i 2/3 dei poveri peruviani non sono né agricoltori né operai ma imprenditori: nonostante ciò il loro lavoro di artigiani e piccoli commercianti è considerato illegale dalle autorità ed è spesso trattato alla stregua di un’attività criminale7.

Una risposta laica al problema dei poveri, che si ripropone con forza non appena le differenze sociali di ricchezza si fanno insopportabili, è stata quella del socialismo: grazie a questa ideologia i sacrificati ricevevano una speranza di riscatto apprendendo un linguaggio e una cultura di indiscutibile valenza morale che originava una forma di militanza oggi nella pratica quasi scomparsa. I teorici liberisti che condannano il socialismo di tutti i tempi, dovrebbero ricordarsi più spesso delle antiche condizioni di vita e sviluppare qualche considerazione sui rischi di un ritorno alle origini: il linguaggio del socialismo che oggi li fa sorridere è stato per molti decenni l’unica ragione di vita per gli uomini senza avvenire. Questo vessillo potrà essere ancora agitato, mutato nomine, dalle future generazioni dei sacrificati.

Negli anni venti gli hobos avevano una libreria a Chicago, (The proletariat), presso la quale ricevevano la posta, durante i loro spostamenti, che veniva lì conservata e consegnata al loro arrivo8. In Italia, a Bologna, Roma, Milano e Genova, è stato scritto, prodotto e distribuito dai senza tetto un bellissimo giornale (dal titolo “Terre di Mezzo“) che può essere utile a comprendere i problemi di quei sacrificati. Mentre un tempo la condizione di sacrificio poteva essere considerata una fase di transizione, oggi rischia di diventare in qualche modo definitiva. I disoccupati e i senza tetto non sono purtroppo tali per scelta e la mondializzazione dell’economia impone anche ai paesi più forti e ricchi terapie che non tengono molto conto della merce-uomo.
“Ho lavorato tutta la vita per la compagnia delle automobili di Detroit e poi hanno cominciato a comprare queste macchine giapponesi”.

E ancora: “Ti può capitare in una notte. Ho visto un sacco di persone che stavano davvero bene e sono diventate homeless perché hanno perso il lavoro o è morto un membro della loro famiglia o qualcun altro che di solito si prendeva cura di loro9“.

La maggioranza delle persone regolarmente occupate avverte il problema dei sacrificati solo perché la povertà, trasformandosi in delinquenza, diventa molto più pericolosa di un tempo per la tecnologia di cui può disporre e per la manovalanza a basso costo che proviene, ad esempio, dal giro della droga. Il governo americano sta studiando un piano di aiuti per ridurre il numero dei disoccupati in Cisgiordania, una categoria nel cui ambito Hamas recluta facilmente i terroristi impiegati nelle azioni dei militanti islamici.

Non esiste democrazia che possa sopravvivere allorché la povertà e la disoccupazione superano il livello di guardia: i governi di oggi tendono a ridurre il rischio della emarginazione legata all’inattività attraverso interventi di medio periodo, che tuttavia non riescono quasi mai a risolvere il problema sociale. Si verificano allora imponenti flussi di emigrazione nonostante l’uomo non accetti di buon grado la mobilità nelle lunghe distanze, perché si porta dentro il ricordo delle tragedie legate agli esodi di massa; la mobilità per occupazioni estemporanee può generare situazioni sociali difficilmente controllabili, come nel caso della mano d’opera occasionale irretita dalla delinquenza che viene a insediarsi nel territorio ove è venuta meno l’opportunità professionale. Si pensi ai manovali e muratori chiamati dal paese lontano che continuano a risiedere nella città anche dopo la fine delle costruzioni edilizie.

La migrazione è spesso una risposta alternativa alla rivoluzione o a uno Stato di polizia, almeno fino a quando vi siano paesi disposti ad accogliere l’emigrante. Gli imponenti fenomeni di migrazione possono essere contenuti con la forza, ma la ghettizzazione entro i confini della povertà ha spesso per effetto l’esportazione di virus che nessuna polizia al mondo è in grado di fermare. Il fattore-migrazione non determina vantaggi per una nazione: il Paese europeo che ha sperimentato i più alti tassi di emigrazione è l’Irlanda il cui livello di reddito pro-capite, dopo moltissime generazioni di emigranti verso la Gran Bretagna e in altri paesi, è ancora molto più basso di quello inglese e non raggiunge la metà di quello USA10. Ciò si può in parte spiegare con il fatto che l’emigrato tende ad assimilarsi nella società del nuovo mondo fin dalla seconda generazione e che, di conseguenza, si interrompe il flusso delle rimesse invisibili verso la terra d’origine.

Gli inattivi possono essere condannati a un livello di vita molto basso, dal momento che per la società è preferibile lasciarli senza lavoro e corrispondere loro un minimo di sussistenza inferiore al salario11; d’altra parte gli uomini che si trovano in queste condizioni hanno la tendenza a preferire l’assistenza pubblica a un reddito che superi di poco il minimo vitale12.

In Europa si punta al recupero della competitività e un tasso di disoccupazione ai limiti del livello di guardia è addirittura programmato come ineluttabile fino ad almeno il 2005.

C’è differenza nel livello della povertà tra i vari Paesi della terra. Nel 1990, nel corso di una conferenza tenuta alla Columbia University, Boris Eltsin dichiarò: “Alcuni di quelli che negli Stati Uniti definite ghetti, nell’Unione Sovietica sarebbero dei più che decorosi quartieri residenziali“.

A volte la stessa esistenza di risorse destinate ai sacrificati da luogo all’attività di gruppi che mirano ad appropriarsene diventando a loro volta parassitari nei confronti delle classi sociali che versano in condizioni disperate. Ne sono un esempio gli extracomunitari: per ottenere un posto da clandestini sulle scialuppe che li portano in Europa, essi debbono pagare un prezzo agli organizzatori della tratta, ma non appena si integrano nel nuovo tessuto sociale, dimenticano il loro recente passato e si trasformano in antagonisti dei connazionali più sfortunati. Del resto, le stesse agenzie governative di assistenza possono diventare parassitarie dei poveri:

Questa associazione in difesa degli homeless è proprio una fesseria (…) sono dei procastinatori che in effetti campano sulle spalle degli homeless. Senza di noi non avrebbero un lavoro, e lo sanno13.

Anche nel terzo mondo la corruzione delle élites è arrivata a livelli talmente incontrollabili che gli economisti sono contrari agli aiuti forniti da un governo all’altro proponendo invece di intervenire direttamente sui territori:

Occorre rompere le barriere e i monopoli che lasciano tanti popoli ai margini dello sviluppo, assicurare a tutti – individui e nazioni- le condizioni di base, che consentono di partecipare allo sviluppo (…). Occorre che le Nazioni più forti sappiano offrire a quelle più deboli occasioni di inserimento nella vita internazionale e che quelle più deboli sappiano cogliere tali occasioni, facendo gli sforzi e i sacrifici necessari, assicurando la stabilità del quadro politico ed economico, la certezza di prospettive per il futuro, la crescita delle capacità dei propri lavoratori, la formazione di imprenditori efficienti e consapevoli delle loro responsabilità14.

La politica degli aiuti internazionali sta diventando uno strumento di pressione utilizzato dai Paesi ricchi per ottenere le commesse da quelli poveri. Una singolare forma di intervento è stata quella attuata dall’Italia che aveva stanziato fondi per costruire opere inutili in alcuni stati nord africani, finanziando per questo imprese italiane che in tal modo sono diventate le vere beneficiarie dell’iniziativa umanitaria.

Alcuni economisti ritengono che il futuro dell’economia mondiale nel prossimo ventennio sarà garantito essenzialmente dai Paesi in via di sviluppo che negli ultimi anni stanno registrando un aumento del prodotto interno superiore del 2-3% ai paesi Ocse; questo offrirà grandi possibilità di sviluppo anche ai paesi industrializzati che tuttavia, per restare competitivi, dovranno operare grandi cambiamenti, mettendo sotto stress i propri sistemi economici15.

In USA si va facendo strada l’idea che occorra assumere iniziative alternative per ridurre il gap tra la società opulenta e quella sacrificata16. Kemp propone l’abolizione dell’imposta sui redditi da capitale per chi reinvesta nelle città e la riduzione delle tasse sui salari dei poveri; inoltre si dovrebbero incentivare i sacrificati che accettano più lavori e smettono di gravare sul sistema pubblico17. Si consideri peraltro che l’idea di far lavorare i disoccupati stabili in opere pubbliche utili, incontra seri ostacoli proprio da parte delle imprese del settore che si vedono portar via quelle commesse.

La riforma di Sanità e previdenza proposta da Clinton ha trovato i più duri contrasti da parte delle organizzazioni dei lavoratori che non intendono subire trattenute sui salari a vantaggio di classi ritenute non produttive. L’operaio dimentica spesso che l’opportunità di un lavoro può essere appunto una chance che non tutti hanno la fortuna di avere.

La stazione ferroviaria di New York ospita spesso vecchietti abbandonati: si tratta di persone afflitte da demenza senile prive di carta di identità, lasciate a se stesse dai figli che non possono pagare le spese sanitarie; a quel punto interviene il Comune che le ricovera in qualche nosocomio. Per capire la differenza tra il sistema sanitario americano e quello italiano, si consideri che negli Stati Uniti il vecchietto muore perché non ha i soldi o l’assicurazione per essere curato, in Italia perché il personale sanitario sta scioperando.

La categoria degli appagati è contraria a ogni forma di intervento dello Stato nonostante il livello di pericolosità dello squilibrio; si può quindi concludere affermando che gli individui socialmente privilegiati e tra questi gli organizzatori parassiti e i numerosi profittatori coperti dall’anonimato che fanno un uso improprio dei beni collettivi, non avvertono in alcun modo la condizione in cui vivono, condizione che cercano costantemente di migliorare ricorrendo a ogni mezzo alla loro portata, senza porsi alcun problema etico in ordine alle conseguenze delle proprie azioni sui gruppi sacrificati.

NOTE

1. Secondo A. Sauvy, quello che caratterizza le classi sociali non è tanto l’ineguaglianza delle condizioni quanto il loro prolungamento all’infinito attraverso le generazioni.

2. Grande dizionario enciclopedico, Torino, UTET, II, p. 604.

3. R. Rauty, Homeless Povertà e solitudini contemporanee, Genova, Costa & Nolan, 1993, p. 51.

4. L’homeless è una persona che manca di una residenza notturna permanente. Gli hobos e i tramps rappresentavano il proletariato che si trasferiva da uno stato Usa all’altro alla ricerca di un lavoro.

5. Per la trattazione di questi temi si veda il saggio sui vagabondi nella storia del Rauty, introduzione alla edizione italiana di N. Anderson, Il vagabondo. Sociologia dell’uomo senza dimora, Roma, Donzelli, 1994.

6. Rauty, Homeless, cit., p.19.

7. Novak, L’etica cattolica, cit., p. 169. È questo un caso di applicazione concreta a un intero paese della tecnica del terrore e dei sensi di colpa collettivi.

8.  Rauty,  Homeless,  cit., p. 41.

9. Ibid., pp. 23, 19.

10.  M. Olson, Logica delle istituzioni, Milano, Edizioni di Comunità, 1994, p.14.

11. Considerazioni riassuntive sulla ricerca CEE. in Rauty,  Homeless, cit., p.144

12. B. Geremek, Uomini senza padrone, Poveri e marginali tra Medioevo e Età Moderna,Torino, Einaudi, 1992, p.14.

13. Rauty,  Homeless, cit., p. 91.

14. Giovanni Paolo II, Centesimus annus, §. 35.

 

15. J. F. Richard, vice presidente della Banca Mondiale, in  “Italia Oggi”, 27 febbraio 1996.
16. I dati dello squilibrio sociale USA: una minoranza del 4% degli americani guadagna quanto il 51% della gente collocata nella parte bassa della graduatoria. All’1% delle famiglie più ricche è andato il 70% dell’incremento del reddito della media delle famiglie tra il 1977 e il 1989. Il 18% degli americani che lavorano a tempo pieno vivono in condizioni definibili sotto la linea di povertà. L’assistenza pubblica riguarda solo le persone che vivono in condizioni di indigenza e gli anziani (oltre i 65 anni).

17. Novak, L’etica cattolica, cit. p. 178.