Morire per Damasco? No, non per la primavera dei chador

ROMA – Qualche incauto ha battezzato i moti di insofferenza civile in Turchia come “Primavera turca”. Le manifestazioni, la protesta, la resistenza all’islamizzazione della società turca praticata dal governo Erdogan sarebbero, secondo questa pigra declinazione delle “primavere”, la continuazione, l’anello turco della catena di “primavere” nel Nord Africa e in Medio Oriente. Peccato che sia in Nord Africa che in Medio Oriente una catena ci sia e si stia stringendo, ma una catena di oppressione e di teocrazie neanche tanto mascherato. Nulla di più alieno e diverso dalle “primavere” di cui ci si bea e ci si illude in Occidente. La Tunisia, la Libia, L’Egitto e prima ancora l’Iraq e la Siria e anche la moderna e ricca Turchia sono sì una “catena”, una catena che strattone tutti questi popoli e paesi in direzione, a somiglianza dell’una o dell’altra teocrazie realizzate oggi su questa terra: l’Arabia Saudita e l’Iran.

La Tunisia, dove, secondo la vulgata in gran voga in Occidente, la “primavera” fiorì per prima. Oggi lo Stato e la società tunisine sono assediati dai cosiddetti salafiti dall’esterno e infiltrati dall’islamismo di Stato dall’interno. Libertà civili e religiose, diritti umani, eguaglianza degli individui, sicurezza personale nell’esercizio dei diritti politici sono oggi in Tunisia più a rischio di quando la Tunisia era sotto il controllo di un despota di fatto. Il regime di Ben Alì non è stato sostituito da una democrazia giovane, inesperta e fragile. Il regime vecchio e cadente è stato sostituito da altro e più vigoroso regime: quello islamista dove Stato e confessione religiosa coincidono. Con quel che ne segue per gli “infedeli” e gli “impuri”, a partire dalle donne “impure” per definizione.

La Libia da cui è stato scacciato il tiranno Gheddafi è sede di un mini Stato islamista in Cirenaica che non disdegna contatti con la guerra e guerriglia armata anti Occidente. La stessa Libia è sede di un arsenale di uomini, armi e idee che riforniscono, rinforzano le entità para statuali in associazione con Al Qaeda nell’Africa centrale e giù fino alla Nigeria. La Libia era una dittatura sotto Gheddafi, ora non è più una dittatura, è un fascio di regimi e poteri dittatoriali.

L’Egitto, il paese più grande, il più legato all’Occidente da legami di interesse, il meno lontano da un’architettura formale di democrazia politica. Era in mano a un rais, a un dittatore. Adesso ha cambiato le forme ma non la sostanza del rais che comanda. E tutto lo Stato e giziano e la società egiziana stanno accogliendo o subendo l’ineluttabilità che i Fratelli Musulmani si facciano partito-Stato.

L’Iraq liberato da un dittatore dai soldati americani è la culla e la caserma di esercitazione della guerra di religione tra sunniti e sciiti. L’Iraq è oggi ripartito e amministrato su base tribal confessionale. Ed è per questo, per questo risultato che sono di fatto morti migliaia di americani e centinaia di europei mandati lì in guerra.

L’Iran decenni or sono in mano a un dittatore chiamato lo Scià. L’Occidente democratico applaudì e confortò la “rivoluzione verde” di Khomeini. E infatti si ritrovò con il potente e aggressivo Stato degli ayatollah, i monaci e dottori della fede che predicano la contaminazione nucleare come antidoto e barriera alla contaminazione laica che potrebbero subire dal resto del mondo.

La Turchia, elogiata come l’Islam finalmente moderato capace anche di vincere libere elezioni e di far viaggiare il Pil a più sette, otto, nove…Turchia dove il diritto di andare in pubblico velate sta diventando obbligo e dove alle bimbe a scuola si impone il velo. Dove il proibizionismo dei costumi si accompagna a quello dell’alcol, dove campagne pagate dallo Stato ammoniscono a non baciarsi in pubblico, dove si allungano le vesti delle hostess, si indica il rossetto come foriero di scandalo. La Turchia che lentamente scivola verso l’islam di Stato.

E l’Arabia Saudita e il Qatar e gli Emirati che incoraggiano, anzi pagano questo scivolare ovunque verso questa e non altra destinazione di nazioni e popoli. E infine la Siria dove oggi, da anni, Assad il dittatore massacra e macella e dove gli insorti contro Assad massacrano e macellano. Una guerra di sterminio perché guerra di religione. Una guerra senza pietà perché guerra tribale. Una guerra dove il regime è stato colto in flagrante ad usare su scala locali armi chimiche e dove gli insorti usano quando ce le hanno armi chimiche. Una guerra dove qualche governo e qualche pubblica opinione vorrebbe, inclina a che l’Occidente intervenga per dovere umanitario, per porre fine al massacro, per aiutare quei popoli, per fa sboccare la “primavera” siriana.

Ma al contrario non bisogna intervenire, non vale, non si deve morire per Damasco. E non per pacifismo, non è per pacifismo che non si deve. Valse la pena e si doveva morire e infatti si morì a milioni per Danzica. Anche se Danzica in fondo era una piccola città mezzo polacca e mezzo tedesca. Se la storia pone come alternativa il nazismo o la democrazia, vale la pena di morire. In Tunisia,  Libia, ‘Egitto, ‘Iraq, ‘Iran e in Siria oggi la storia pone come alternative reali i regimi dittatoriali di famiglie o tribù oppure lo Stato teocratico dittatoriale. In Siria si potrebbe andare a morire, si andrebbe a morire per quelli che tagliano la gola in strada a Londra a un soldato che indossa la stessa divisa di chi va a morire a Damasco. In Siria si interverrebbe per una sola causa, l’unica che c’è, per una sola stagione, quella  che sta sorgendo ovunque in Nord Africa e in Medio Oriente: la primavera dei chador.

Comments are closed.

Gestione cookie