Stefano Cucchi non è stato ammazzato da quel pezzo di Stato in divisa che l’ha pestato, è stato ucciso da quel più ampio pezzo d’Italia che di lui, di quelli come lui e di tanti altri senza nome, protezione e soldi se ne è “fregata”. Stefano Cucchi l’ha ucciso il “chi se ne frega” di un delinquente morto di fame, “chi se frega” esteso e prolungato fino a che non è letteralmente morto di sete. Così, con queste parole in lingua piana e volgare va tradotto il rapporto della Commissione che correttamente ha scritto: deceduto non per le percosse ma per disidratazione. Un rapporto che va letto, nelle sue sette dolorose e vergognose “stazioni”.
Prima: le lesioni alle orbite, alla colonna vertebrale e al coccige ci sono, sono la conseguenza di botte e maltrattamenti. Ma non hanno ucciso. La responsabilità di chi le ha inferte, presumibilmente agenti di polizia penitenziaria o carabinieri sono gravi ma non omicide.
Seconda: il medico del carcere chiede il ricovero “urgente” di Cucchi ma in ospedale, al Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina a Roma, Cucchi entra dopo quattro ore di attesa. Devono averlo guardato e devono aver deciso che uno come lui poteva aspettare. Qui la responsabilità cresce ma ancora ha l’alibi di una sorta di “incuria da routine”.
Terza: l’ortopedico del Fatebenefratelli viene consultato telefonicamente in quanto non di “guardia attiva”. Pudicamente la Commissione rileva come questo non sia “consono” ad un grande ospedale.
Quarta: Cucchi arriva al Fatebenefratelli senza cartella clinica che lo accompagni dal carcere. Cartella che nessuno vedrà mai e nessuno mai chiederà. Qui la responsabilità va oltre l’ordinaria sciatteria, diventa disprezzo per un paziente “infimo”.
Quinta: dal Fatebenefratelli al secondo ospedale, il Sandro Pertini, Cucchi viaggia ancora senza cartella clinica. Scrive la Commissione: “modalità di ricovero anomale” e poi la Commissione chiede: anomale perché così si fa con i carcerati o perché così fa il Pertini? E’ evidente che la risposta giusta è la prima. E’ altrettanto evidente che i medici accettano che i detenuti siano pazienti da trattare in modo “anomalo”.
Sesta: il primario responsabile della “struttura protetta” del Pertini non ha mai visitato Cucchi e mai verrà lì predisposto “monitoraggio” del paziente. Paziente dunque che non merita “mai” una visita né un controllo continuo. Qui la responsabilità di quella morte cresce fino a diventare di dimensioni insolenti.
Settima e ultima stazione: quando la situazione sanitaria precipita non si chiama l’equipe di rianimatori. Scrive la Commissione che “poteva arrivare in cinque o sei minuti”. Ma per Cucchi nessuno la chiama, nessuno “spreca” un’equipe.
Morto perché non valeva la pena di fregarsene: questo l’epitaffio che l’Italia presto immemore potrebbe scrivere sulla lapide di Cucchi. Così, per ricordarsene quando si capita al cimitero.
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