Da Tangentopoli a Ruby “nipote”: i complici, i moventi, i delitti

ROMA – Il ventesimo compleanno di Tangentopoli è stato una ricorrenza “alla memoria”, l’esposizione di un cordoglio. Insomma una manifestazione funebre e funerea in cui in nome e all’indirizzo all’estinto, in fondo neanche tanto “caro”, sono stati tributati e spediti disillusione, rammarico, inutilità. Oppure rancore e accuse. Dalle lacrime di impotenza postuma di Di Pietro, fino all’ostilità ancora in battaglia e non sfiorata da alcuna forma di “perdono” di Stefania Craxi. Passando per la constatazione di tutti i magistrati di quello che venti anni fa fu il “Pool” dei giudici e inquirenti di Milano, constatazione che si riassume nel “oggi è peggio di allora”. Peggio di allora la corruzione e il sistema tangentizio, come nei giorni del “compleanno” documentava e conteggiava la Corte dei Conti: oggi la corruzione “vale” 60 miliardi di euro. L’evaporare, il disperdersi di Tangentopoli suggeriscono una rilettura di quelli che furono i complici, i moventi e i delitti di Tangentopoli e poi i complici, i moventi e i delitti del suo fallimento, rimozione, inutilità. Rilettura che, non sembri strano o incongruo, sarà più agevole se si parte da un processo di oggi che di altro si occupa, il processo e la storia di Ruby “nipote di Mubarak”.

Le udienze e le testimonianze degli agenti e dei funzionari di polizia in servizio alla Questura di Milano la notte in cui Berlusconi telefonò e ritelefonò per tirar fuori Ruby dai guai attestano e documentano. Che la ragazza fermata in Questura allora minorenne fu liberata e consegnata nelle mani, alla “custodia e responsabilità” di Michelle Conceicao, brasiliana sospetta di esercizio della prostituzione, dotata del numero di telefono e di accesso diretto al premier (fu lei che chiamò Berlusconi a Parigi), brasiliana che andò in Questura a prendere Ruby, ancor prima che Nicole Minetti. Nicole Minetti che in Questura sarebbe arrivata esibendo l’incarico di “inviata speciale della presidenza del Consiglio”. La minorenne Ruby, non identificata come attestano e documentano le testimonianze (il fax di conferma delle sue generalità arrivò in Questura dopo che Ruby era stata consegnata alla Conceicao), non era quella notte per nessuno degli agenti e  dei funzionari al lavoro in Questura neanche in lontana ipotesi la “nipote di Mubarak”. Sapevano tutti e lei stessa diceva di essere marocchina. Quella minorenne era per poliziotti e funzionari qualcuno per cui il presidente del Consiglio telefonava e intercedeva, quindi qualcuno di cui liberarsi in fretta, come ancora una volta attestano e documentano le testimonianze quando rivelano che al magistrato che aveva la responsabilità della minorenne non furono trasmesse tutte le informazioni e si fece in modo di ignorare le sue indicazioni si dove dovesse andare Ruby quella notte, e cioè in una comunità e non a casa della Conceicao più o meno accompagnata dalla Minetti. Alle corte: testimonianze e udienze documentano e attestano che il capo del governo italiano quella notte, nella veste pubblica e ufficiale di premier, si mosse per una “privata” amica. Con benevola neutralità, con scarico e rimpallo di responsabilità, sotto pressione in Questura stettere al gioco, magari al riparo della non “competenza”. E successivamente fu inventata la “pezza” molto poco a colore della nipote di Mubarak.

E allora? Allora ecco i complici. In primo, primissimo luogo il Parlamento della Repubblica che a suo tempo ha votato a maggioranza la credibilità della favola della “nipote” facendone una verità di Stato, verità che neanche l’ultimo agente dell Questura ritenne credibile. Una pagina al tempo stesso ridicola, umiliante ed esclusiva su scala mondiale del nostro Parlamento. Il secondo complice è la pubblica opinione che a pochi mesi dalla pubblica conoscenza dei fatti considera l’accaduto “routine” e declassa quegli avvenimenti a manifestazioni incongrue ma “organiche” alla gestione del potere politico. Quanto al movente, per Berlusconi fu l’istinto alla protezione del cerchio delle sue relazioni, la “certezza” di poterlo e doverlo fare. E il delitto? I delitti furono, anzi sono, due: l’incesto tra fatto privato e potere pubblico e quindi la menzogna di copertura.

Che c’entra con Tangentopoli e con il suo funerale dopo venti anni? C’entra perché lo schema è lo stesso. Complici del sistema delle tangenti furono gli imprenditori che pagavano. Pagavano perché era conveniente pagare: l’opera pubblica costava cento, con la tengente il costo saliva a 120, con il ricarico sull’appalto saliva a 140. Il quaranta per cento in più andava metà ai partiti e metà alla “società civile”. Nessuno fiatò fino a che l’opera pubblica si faceva, si cominciò a denunciare quando la tangente cominciò a diventare “improduttiva”, cioè veniva pagata senza fruttare. Complice poi è stata la pubblica opinione, pronta a chiedere forca e cappio per i partiti e i politici, ma renitente e reticente sulla sua funzione di “palo” e di beneficiario della tangente. Il movente di Tangentopoli fu la sopravvenuta inaffidabilità tangentizia dei partiti che la pretendevano, il movente della sua archiviazione è stato, in questi venti anni, sia la nuova pretesa da parte della politica di una “agibilità” sui soldi pubblici senza controllo, sia la resistenza della pubblica opinione a intaccare davvereo il flusso di soldi pubblici verso se stessa. Il delitto? Quello comune di considerare il denaro pubblico come una “res nullius”, una cosa di nessuno da distribuire, di cui impadronirsi, da dirottare verso casa.

Venti anni dopo consideriamo Tangentopoli un eccesso nel funzionamento peraltro standard e ovvio della nostra società e della nostra politica. Un eccesso da rimuovere o da annoverare come salutare. Però comunque un eccesso perché la “macchina” sociale e politica quella è e quella altro non può essere, salvo eccessi appunto. Considerazione coerente venti anni dopo: 60 miliardi di euro come fatturato netto della corruzione non può, non fosse altro che per le dimensioni, che riguardare e toccare ampi settori della società e civile e non solo il ceto politico. Dieci mesi dopo che la notte della Questura di Milano con Ruby nipote fu resa pubblica consideriamo la questione in qualche misura “risolta”, al punto da quasi annoiare, perché Berlusconi non è più premier. La prepotenza e la bugia pubblica del potere le consideriamo “organiche” al potere stesso. Furono denunciate come leva per scalzare Berlusconi, a Berlusconi dimesso rientrano in fondo nella “normalità”.

La nostra italica “normalità”. Che non è quella degli inglesi, quella per cui un ministro si dimette per aver “intestato”  alla moglie una multa stradale. Non quella dei tedeschi dove il capo dello Stato si dimette per aver risparmiato 90 euro al mese su un mutuo facendosi prestare i soldi da un imprenditore amico. Normalità queste che ci appaiono aliene e ci muovono più che all’emulazione a un sorriso di compatimento. La nostra “normalità” è quella di indignarci perchè un premier mente per tentare di farlo fuori da premier, salvo poi archiviare l’accaduto con uno sbadiglio a dimissione per altre vie sopraggiunte. La nostra “normalità” è quella di far dei magistrati dei “vendicatori” da osannare quando colpiscono i politici e la corruzione politica, ma da guardare con sospetto quando dovessero attentare, tentare lo smontaggio della corruzione quotidiana e civile. Da Tangentopoli a Ruby nipote…stessi complici, stessi moventi e in fondo stesso delitto.

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