Golpe in Egitto: occidente con i militari, ma finirà molto male

di Pino Nicotri
Pubblicato il 17 Agosto 2013 - 07:50 OLTRE 6 MESI FA
Golpe in Egitto: occidente con i militari, ma finirà molto male

Il Cairo. Cadaveri allineati sull’asfalto

La tragedia in Egitto ha posto la parola fine a un’altra illusione dell’Occidente, e dell’Europa in particolare: la illusione che i colpi di Stato militari possano arginare man mano e una volta per tutte le spinte popolari extra occidentali che per un motivo o per l’altro non ci piacciono.

Quest’illusione si fonda sul fatto che di norma gli ufficiali militari che costituiscono l’ossatura delle forze armate altrui sono stati formati quasi tutti nelle più prestigiose accademie e scuole militari degli Usa e dell’Europa. Quelle italiane, per esempio, hanno contribuito a formare il colonnello Gheddafi e il generale Siad Barre, ex sottotenente dei carabinieri italiani, diventati a suo tempo con i rispettivi colpi di Stato i padroni di lungo corso della Libia il primo e della Somalia il secondo. Finiti entrambi come sono finiti: ucciso dai ribelli il primo, cacciato a furor di popolo il secondo.

In Tunisia il generale Ben Ali, che nel 1987 abbatté con un colpo di Stato morbido il presidente Bourguiba, per poi essere cacciato a sua volta con la cosiddetta “primavera araba” nel gennaio 2011, si guadagnò i gradi nella prestigiosa Ecole spéciale militaire de Saint-Cyr e nell’Ecole d’application de l’artillerie de Chalons-sur-Marne, per poi perfezionarsi nella Senior Intelligence School e infine nella School for Anti-Aircraft Field Artillery negli Usa. E a metterlo in sella a Tunisi furono i nostri servizi segreti militari, che seppero agire con discrezione: Bourguiba fu deposto per senilità a 84 anni e fatto accudire da una equipe di medici nel suo dorato palazzo di Monastir.

E’ francamente incomprensibile la simpatia con la quale soprattutto in Italia è stato accolto il colpo di Stato che in Egitto ha portato in galera il presidente Mohamed Morsi. Candidato dei Fratelli Musulmani, Morsi nel giugno dell’anno scorso ha vinto le prime elezioni libere e democratiche egiziane, che hanno posto fine ai quasi 30 anni di potere di Hosmi Mubarak, generale dell’aeronautica diventato presidente.

I generali che hanno deposto e arrestato Morsi li abbiamo applauditi come “salvatori della democrazia”, nonostante siano stati le colonne portanti del potere man mano sempre più duro di Mubarak.

Il precedente algerino avrebbe dovuto invece farci riflettere di più, ma si è preferito ignorarlo. Purtroppo i fatti però sono testardi, e continuano a esistere anche se non se ne parla. Come era prevedibile, in Egitto si sta ripetendo infatti quanto successo in Algeria nel 1992, quando, alla vittoria schiacciante del Fronte Islamico di Salvezza Nazionale, che nel primo turno delle libere elezioni aveva riportato nel dicembre 1991 il 60% dei voti, l’esercito applaudito dall’intero Occidente rispose con un golpe.

Il golpe ha rassicurato in particolare la Francia, però ha aperto la strada a una guerra civile particolarmente feroce, che ha mietuto centinaia di migliaia di morti. E che tuttora lascia aperta la porta ad altre possibili convulsioni dagli sbocchi potenzialmente ancora più gravi.

Un tentativo di derubare della vittoria elettorale gli islamici è stato fatto anche in Tunisia dopo la cacciata nel 2011 di Ben Alì, padrone di fatto del Paese per 23 anni di fila. Nonostante la chiara, indiscutibile vittoria del partito islamico Ennahda, l’appoggio soprattutto italiano è andato alle proteste di un partitello dal nome francese di “”Petition populaire”, fondato da un miliardario inglese di origine tunisina diventato famoso per le sue promesse mirabolanti, tra le quali un ponte da Tunisi alla Sicilia. I seguaci del miliardario per un po’ hanno messo a soqquadro la cittadina di Sidi Bouzid, incendiando il tribunale e saccheggiando negozi e uffici. In quasto caso però i militari però hanno preferito rimanere al loro posto.

Come è noto, la strategia dei colpi di Stato militari, sempre sanguinosi e sfociati in dittature feroci, a tutto vantaggio dell’Occidente, in particolare della Nato, ha funzionato per decenni in Centro e Sud America, in Indonesia, Congo, Iran, Pakistan, ecc. Ce n’è stata una intera serie perfino nell’europea Grecia e nella vicina Turchia, entrambi Paesi membri della Nato, ed erano golpe foraggiati soprattutto dagli Usa per “difendere il mondo libero”, cioè non comunista.

Alla Casa Bianca erano preoccupati per la tenuta del fianco orientale della Nato in zone del pianeta confinanti con l’allora esistente Unione Sovietica, il gigante comunista dal formidabile armamento anche atomico, ma dai piedi d’argilla per mancanza di industria leggera, benessere e libertà politiche.

Crollata l’Urss e scomparso il pericolo comunista, essi sono stati velocemente sostituiti con l’Islam e il pericolo islamico, così come la “guerra fredda” è stata sostituita con la “guerra mondiale al terrorismo”. Invenzione quest’ultima che ha permesso all’enorme apparato industriale bellico di continuare a prosperare. Il tutto ha permesso anche il riciclaggio del golpismo in chiave “democratica”, ma l’illusione non è durata molto.

Il caso vuole che “i bei tempi” del golpismo filo occidentale facile e vincente sono finiti proprio nella Turchia dove erano iniziati con il golpe di Kemal Ataturk, il padre della moderna Turchia: nata laica nel 1923 e rimasta tale mentre nel resto del mondo musulmano soffiavano il vento islamico prima e quello islamista dopo.

Iniziato il nuovo millennio, in Turchia sono diventati rispettivamente capo dello Stato e primo ministro Abdullah Gül e Tayyip Erdogan, entrambi leader del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), formazione islamica e conservatrice nata nel 2001. Man mano che i voti dell’AKP crescevano i governi provvedevano a limare il potere dei militari, considerati sin dal varo della costituzione kemalista i guardiani, i custodi e i garanti non solo dell’integrità territoriale, ma anche della laicità dello Stato. I conti con i militari sono stati infine regolati di recente con il processo noto come Ergenekon, concluso con una quindicina di ergastoli comminati ad alti papaveri con le stellette accusati di progettare un golpe. Fra i nomi eccellenti, Ilker Basbug, ex capo di stato maggiore, e Veli Kacuk, ex capo dell’esercito.

Come le atomiche, l’industria automobilistica, quella areonautica, degli armamenti, cinematografica, giornalistico televisiva, ecc., e lo sviluppo economico impetuoso non sono più esclusivo appannaggio europeo e statunitense, così non lo sono più le accademie e le buone scuole militari. La loro influenza nel resto del mondo è molto ridimensionata, se non finita. Lo dimostra clamorosamente la pioggia di ergastoli turchi: nell’ex Terzo Mondo, nei Paesi in via di sviluppo diventati in gran parte anche loro Paesi sviluppati, è finita sia l’epoca dei golpe “anticomunisti” che di quelli “filodemocratici”. Pare sia arrivata l’epoca nella quale fare i conti senza filtri e barriere protettive con le scelte elettorali delle popolazioni, e governi conseguenti, ci piacciano o no.

I militari egiziani – e varie cancellerie europee – pare però non lo abbiano ancora capito. Avanti di questo passo, al Cairo rischiano – e noi rischiamo in Europa – di capirlo in modo ben più traumatico dei loro colleghi di Ankara.