Monti, Ingroia, Napolitano: siamo in Italia, non in Usa

di Pino Nicotri
Pubblicato il 24 Dicembre 2012 - 10:11 OLTRE 6 MESI FA
Antonio Ingroia (LaPresse)

Che il primo ministro dimissionario Mario Monti alterni le dichiarazioni di non avere nessuna intenzione di candidarsi con quelle di volersi invece candidare per poi infine dichiarare che non sa bene che fare, non sa decidersi e vuole approfittare delle festività natalizie per pensarci su non dovrebbe sorprendere più di tanto, nel Paese di Carlo Alberto di Savoia passato alla storia come il Re Tentenna.

“La notte porta consiglio”, queste le parole con le quali Monti ha congedato Eugenio Scalfari alla fine di una lunga conversazione su quali siano le sue intenzioni, i suoi programmi, le cose da fare e quelle da non fare. Ma alla fine il consiglio sembra essere stato quello di restare nella ambiguità.

E se Monti finge di non sapere bene che pesci prendere – salvo nella conferenza stampa del 23 dicembre fare l’ennesimo dietro front e dichiarare: “Io premier? Con chi sostiene la mia agenda” – il magistrato Antonio Ingroia non è da meno.

Venuto alla ribalta per l’inchiesta da lui coordinata sulla presunta trattativa tra Stato e mafia per porre fine alle stragi del 1992, Ingroia è diventato ancor più famoso per le polemiche nate dalle intercettazioni ordinate nel corso di tale inchiesta delle telefonate dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, comprese quelle con l’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Napolitano, come è noto, ha sollevato davanti alla Corte Costituzionale il conflitto di attribuzione, sollecitando di fatto la non divulgazione e la distruzione delle telefonate tra lui e Mancino. La Corte gli ha dato ragione e Ingroia, nel frattempo andato per un periodo in Guatemala per conto dell’Onu, ha reagito in modo a dir poco scomposto. Dopo essersi detto “profondamente amareggiato”, Ingroia ha dichiarato che la sentenza della Corte “rappresenta un brusco arretramento rispetto al principio di uguaglianza e all’equilibrio fra i poteri dello Stato” e ha accusato: “Le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto”.

Non contento, il magistrato palermitano ha rincarato la dose: “Per ragioni politiche prima ancora che giuridiche non c’era altra via d’uscita che dare ragione al presidente della Repubblica”, la cui scelta di sollevare il conflitto di attribuzioni “è dannosa per l’immagine delle istituzioni italiane nel suo complesso”.

Queste ultime parola hanno mandato su tutte le furie Napolitano, ormai abituato ad essere salutato come salvatore della patria dalla barbarie. A Bersani è arrivato chiaro e netto l’avviso che la candidatura di Ingroia nell’alleanza di centro sinistra in via di definizione “è assolutamente impensabile”.

Da più che probabile ministro della Giustizia, con tanto di tappeto rosso, nel quasi possibile futuro governo Bersani, Ingroia è stato retrocesso di colpo a caso imbarazzante. E così anche lui ha iniziato a zigzagare. Si candida? Non si candida? L’unica cosa certa è che dai vari “Io ci sto!”, “Io sarò con voi!” dichiarati a petto in fuori e con tono profetico ai militanti del Movimento Arancione, capitanato dall’ex magistrato e sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, Ingroia è improvvisamente passato al “devo decidere”, “ci sto pensando”. Quasi un Monti bis. E un altro Re Tentenna, anche se le ragioni di Monti e Ingroia sono opposte: tattiche, per farsi pregare da tutti e non sporcarsi il loden con nessuno Monti, strategiche, per coprire una ritirata Ingroia.

In attesa che la notte natalizia porti consiglio a entrambi e che sciolgano la riserva, posto che la riserva ce l’abbiano davvero e non sia solo surplace, è il caso di fare comunque delle considerazioni. Sul comportamento di Napolitano e su come è stato difeso a spada tratta in questa storia delle intercettazioni telefoniche.

Prima osservazione: duole dirlo, ma gli strenui difensori di Napolitano hanno messo in campo le stesse argomentazioni a suo tempo sciorinate dagli avvocati e dai fans di Berlusconi quando le telefonate intercettate erano le sue. Sciorinate dagli avvocati e dai fan di Berlusconi, ma avversate dai suoi avversari che di recente le hanno invece utilizzate a difesa catenaccio di Napolitano. Gli argomenti spaziavano dal grave danno all’Italia sicuramente procurato dalla divulgazione di telefonate presidenziali dal contenuto in ogni caso delicatissimo anche se avessero contenuto “solo” considerazioni negative su politici, magistrati e magari capi di Stato esteri, alla “violazione della privacy” usata dalla Corte Costituzionale.

Seconda considerazione: è ben strano che si protegga così strenuamente la privacy del nostro presidente della Repubblica quando negli Stati Uniti, dei quali ci riempiamo spesso la bocca come campioni di democrazia e correttezza istituzionale, il presidente Richard Nixon fu costretto a consegnare agli inquirenti chili e chili di registrazioni delle sue conversazioni con i ceffi che utilizzò per far scassinare gli uffici elettorali degli avversari, in quello che è passato alla storia come lo scandalo del Watergate. Non solo fu costretto a consegnare chilate di nastri registrati, ma dovette dimettersi da titolare della Casa Bianca.

E un altro presidente in carica, Bill Clinton, ha dovuto denudarsi e mostrare il suo “coso” a un ufficiale medico incaricato dagli inquirenti di verificare se lo aveva davvero come era stato descritto da una sua ex nel corso del Monicagate. Nel corso cioè del famoso scandalo nato dalle accuse sessuali dell’ex stagista della Casa Bianca Monica Lewinsky.

I presidenti Usa hanno responsabilità ben più grandi dei nostri presidenti e governanti, comprese guerre sempre in corso da qualche parte e il doversi portare sempre appresso un ufficiale con la “valigetta dell’Apocalisse”, quella cioè con la quale può essere ordinato il lancio di missili armati di bombe atomiche. Eppure di fronte alla giustizia la loro privacy cede il passo. In Italia invece…