Cina tra crescita e inflazione. Anatra zoppa? Non ancora, però…

di Paolo Forcellini
Pubblicato il 20 Febbraio 2011 - 14:49 OLTRE 6 MESI FA

yuan e sono anche piuttosto richieste perché molti confidano in una rivalutazione della moneta di Pechino.

All’orizzonte della grande economia asiatica non si vedono però solo nuovi record e sorpassi: si cominciano a scorgere anche alcune nubi. Una prima turbolenza è data dalle tensioni sui prezzi: l’inflazione viaggia attualmente attorno al cinque per cento (alcune previsioni dicono che a metà 2011 avrà superato il sei). Un dato di per sé non drammatico ma che si fa più preoccupante se si prendono in considerazione i soli prezzi dei beni alimentari che crescono di circa il doppio (più dell’11 per cento). Questo è un dato particolarmente grave per un paese con un reddito pro capite ancora molto basso e dove quindi gran parte della popolazione spende una buona percentuale delle sue magre entrate per l’acquisto di generi alimentari. Se è vero che il regime autoritario ha fin qui potuto imporre una politica economica volta del tutto prioritariamente ad accrescere la dotazione di mezzi di produzione e di infrastrutture, esportando una grossa quota della produzione su base industriale, pare comunque difficile che su questa strada si possa continuare a lungo, sia per pressioni esterne che interne.

Quanto alle prime, è noto che dagli Stati Uniti e dagli altri paesi sviluppati c’è una pressante richiesta nei confronti di Pechino perché rivaluti lo yuan tenuto artificiosamente basso. Se la consistente rivalutazione si verificasse, l’inondazione delle merci cinesi sui mercati internazionali subirebbe un forte rallentamento. Com’è noto i dirigenti comunisti hanno finora fatto orecchie da mercante a questo invito all’apprezzamento: negli ultimi due anni lo yuan si è sì rivalutato ma di pochissimi punti (neppure quattro), assai meno di quanto vorrebbe l’Occidente. Bisogna però aggiungere – ciò che viene spesso sottaciuto – che se alla timida rivalutazione aggiungiamo il differenziale d’inflazione rispetto ai principali paesi industrializzati, allora la perdita teorica di competitività delle merci cinesi comincia a rappresentare un serio problema per il Dragone.

Fino a oggi il paese di Hu Jintao ha compensato le sue carenze di competitività soprattutto con liberalizzazioni “selvagge” del mercato del lavoro (ritmi crescenti, flessibilità massima degli orari, impieghi a tempo determinato, licenziamenti assai duri da far digerire in un paese comunista, ecc.), ampiamente possibili in un paese dove il sindacato contava come il due di picche. Ma ormai i segnali che proseguire su questa strada è via via più difficile e pericoloso si moltiplicano: scioperi, rivendicazioni salariali e di welfare (oggi quasi inesistente) sono all’ordine del giorno. E gli esempi di regimi “socialisti” che sembravano molto saldi e si sono sgretolati nell’“espace d’un matin” dinnanzi alla rabbia “popolare” non si contano più.

La forza lavoro cinese ha ottenuto negli ultimi tempi consistenti aumenti retributivi (in discreta parte erosi dall’inflazione), intorno al sei per cento medio annuo, tasso che però raddoppia nelle aree più intensamente urbanizzate e industrializzate. A questo fenomeno si congiunge strettamente quello dell’aumento dei costi delle materie prime, dal petrolio al rame, spesso provocato proprio dalla crescente domanda cinese di questi prodotti sui mercati mondiali. L’anatra pechinese si trova dunque davanti a una forbice che potrebbe mozzarle le ali: da un lato è sempre più evidente che la compressione dei livelli salariali non è più praticabile come mezzo per recuperare l’aumento dei costi di produzione; dall’altro questi ultimi incrementano ineluttabilmente proprio a causa del crescente livello di sviluppo e produzione della Repubblica popolare.

Che il volo del pennuto asiatico stia perdendo di abbrivio sembrano dimostrarlo anche i dati più recenti sul commercio estero. L’avanzo si sta, lentamente ma inesorabilmente, contraendo. E’ successo nel 2009 ma in