NOVARA – Bambini ritirati a Landiona ed iscritti in un’altra scuola con meno stranieri, studenti stranieri smistati in classi differenti per “diluire” le diversità a Costa Volpiano. Due, gli ultimi due, ma certamente non gli unici casi di “integrazione difficile” tra studenti italiani e stranieri. Casi che arrivano entrambi dal Nord Italia ma che segnalano una questione che riguarda tutto il Paese e che bollare come figlia di razzismo ed incultura dei cittadini e dei genitori italiani è certamente riduttivo. L’integrazione è un valore, la diversità una ricchezza ma non toglie questo che servano degli equilibri e che, anche dei genitori che razzisti non sono assolutamente, probabilmente si porrebbero il problema di fronte ad una classe composta per lo più da alunni stranieri.
Non è la prima e non sarà l’ultima volta. Di casi simili, di proteste più o meno civili di genitori preoccupati dalla presenza di tanti bambini stranieri nelle classi dei loro figli se ne ripetono ad ogni inizio di anno scolastico. E, come spiegano i docenti, in questo non ha certo aiutato la riforma Gelmini che ha ridotto il numero degli insegnanti, e quindi delle classi, aumentando le concentrazioni di studenti immigrati.
Un problema che viene vissuto e giudicato dai più in modo esclusivamente ideologico: da una parte chi sostiene che i genitori che si preoccupano, e magari cambiano classe ai figli, altro non sono che beceri razzisti e, dall’altra, chi sostiene che non se ne può più degli immigrati che rubano il lavoro e la scuola. Due posizioni più di pancia che di testa che non rispecchiano la realtà e che non provano nemmeno ad affrontare quello che è un problema. L’integrazione, la multiculturalià, anche per chi ne riconosce il valore, sono temi delicati che, per realizzarsi, hanno bisogno di regole, compromessi ed equilibri. Basti ricordare come il primo ministro di uno dei paesi che della multi cultura ha fatto una ricchezza, David Cameron, abbia solo poco tempo fa dichiarato che il modello britannico di integrazione ha fallito. Basti ricordare le difficoltà incontrate da alcune comunità nel luogo dove il concetto di melting pot è nato: gli Stati Uniti. E basti ricordare come anche la Francia, altro paese campione del multiculturalismo, abbia non pochi problemi d’integrazione.
Provando a scivolare dalle posizioni di principio e tentando di affrontare la cosa dal punto di vista pratico, va ad esempio riconosciuto che una classe (si parla in entrambi i casi citati di prime elementari) dove metà o comunque buona parte degli studenti non parla bene l’italiano avrà, inevitabilmente, delle problematiche in più da affrontare. Se gli studenti stranieri sono quindi non pienamente padroni della nostra lingua sarebbe un bene, per loro e per i loro compagni di classe, che fossero divisi in più classi. Questo per rendere più semplice il lavoro degli insegnanti e anche per aiutare gli alunni stranieri stessi ad integrarsi. Una considerazione questa che di certo nulla ha di razzista ma che, al contrario, si basa su un semplice ragionamento pedagogico evidente ai più. Vero è che non sempre i genitori preoccupati che pongono la questione la pongono in questi termini ma, proprio per questo, sarebbe bene che fossa la scuola a risolverla a monte.
Esiste poi, oltre alla fondamentale componente pedagogica, la più delicata componente culturale. Qualsiasi gruppo sociale, religioso o etnico che sia, quando si trova in un ambiente alieno tende a chiudersi su se stesso. Hanno fatto la stessa cosa anche gli emigranti italiani che, nelle città del nord e del sud America hanno ricreato delle comunità locali dove conservavano lingua e tradizioni. E’ questo un comportamento assolutamente noto e comprensibile degli esseri umani. Ma è anche un comportamento certamente ostativo nei confronti dell’integrazione. E più sono dissimili le culture che si incontrano, più dura diventa la chiusura e più forti i motivi d’attrito. E’ il caso ad esempio, in questi tempi e nel nostro Paese, dell’immigrazione musulmana. Capita a volte che siano anche gli immigrati a non essere sufficientemente culturalmente ricchi da capire il valore dell’integrazione, a voler difendere le loro tradizioni, dal velo al non festeggiare il Natale sino al non mandare i loro figli nelle case degli occidentali. Non è fortunatamente sempre così, ma capita anche questo.
Bastano queste due minime considerazioni per capire come la questione dell’integrazione scolastica non possa essere affrontata come una questione di principio ma debba, al contrario, essere affrontata organicamente e senza pregiudizi. Facile a dirsi e a scriversi. Meno facile nella vita reale: tu iscriveresti a scuola il tuo bambino/bambina se la classe è a netta maggioranza composta da alunni stranieri? E che vuol dire stranieri? Se vuol dire con la pelle di un altro colore, allora il tuo no è quasi sicuramente razzismo, inconscio o conscio che sia. Se invece stranieri vuol dire che parlano altra lingua, allora il tuo dubbio non ha il marchio del razzismo. Ci sono bambini stranieri di cognome e aspetto che sono italianissimi quanto a lingua, costumi e cultura. Bambini con cui è una festa che il tuo vada a scuola. E ci sono comunità straniere che vogliono restare anche a scuola chiuse e diverse, talvolta i roma, talvolta in nome della fede islamica. In questo caso per il tuo bambino la scuola con i bambini di queste comunità è una fatica, di certo una fatica in più. Distinguere, ragionare, evitare il panico, non propagandare illusioni: compiti duri per i genitori, gli insegnanti, i governi.