Patto elettorale tra Pd, Rifondazione e Pdci. “Quel tre per cento non si butta, ma al governo insieme mai”

Pubblicato il 7 Settembre 2010 - 13:30 OLTRE 6 MESI FA

Non solo Nichi Vendola, ma anche Paolo Ferrero e Oliviero Diliberto: in qualche modo saranno tutti alleati con il Pd di Bersani se si scivola, anzi si precipita in elezioni anticipate. Tra tutti è stato sottoscritto un “patto”. Non quelli con tanto di notaio spesso siglati tra Forza Italia e i partiti minori del centro destra. E neanche per carità un patto di governo. Anzi, all’idea di partecipare a un governo ciò che resta di Rifondazione (Paolo Ferrero appunto) e ciò che organizza e raccoglie il Pdci (Oliviero Diliberto) sentono salire su per la schiena sudori freddi. Il patto è solo e soltanto elettorale, esplicitamente esclude che Rifondazione e Pdci possano entrare in un peraltro improbabile governo di centro sinistra dopo elezioni vittoriose. Ma “regalarle” a Berlusconi le possibili elezioni, questo no. Bersani, Diliberto e Ferrero si sono visti, hanno calcolato e pesato e hanno deciso che almeno non si sgambetteranno reciprocamente sulla strada che porta ai seggi elettorali. Insomma, se si vota, faranno coalizione.

Per il Pd è una piccola “svolta”. All’indietro, almeno rispetto alle scelte fatte nel 2008 quando il Pd per marcare la sua identità riformista non volle e non cercò accordi elettorali con la sinistra a suo tempo definita “radicale”. Sinistra che ha visto progressivamente diminuire il suo peso e valore elettorale: nel 2006 era di circa l’otto per cento, quasi sei per Rifondazione comunista, poco più del due per cento per il Pdci (una volta erano un solo partito). Nel 2008 i voti si erano più che dimezzati scendendo al 3,1 per cento. Nelle regionali del 2010 in tutto hanno raccolto il 2,7 per cento. Si parte da qui, da questa scarsa dote elettorale. Cui va aggiunta la formazione guidata da Vendola, Sinistra, libertà ed ecologia, stimata dai sondaggi tra il tre e il quattro per cento. Un’area di circa il sei per cento dei voti possibili che, divisi in tre liste, conterebbero nulla in caso di elezioni. Sei per cento che invece, coalizzato con il 27/29 per cento del Pd e con il 6/7 per cento dell’Idv di Di Pietro, farebbero una “massa critica” di circa il 40 per cento. Insufficiente a vincere le elezioni (Berlusconi e Bossi insieme valgono oggi sul “mercato” elettorale qualche punto percentuale in più, tra il 40 e il 45 per cento). Però forse sufficiente a non farle vincere del tutto le elezioni alla coalizione Pdl-Lega che potrebbe mancare la maggioranza al Senato se queste fossero le cifre vere dei consensi espressi. Perchè questo accada, resta l’altra condizione: che ci sia una terza lista di centro capace di superare il dieci per cento.

Sul piano dei numeri il patto elettorale tra la sinistra riformista e quella radicale non fa una piega. Sul piano politico pone un problema, evidente anche agli stessi sottoscrittori del patto: se mai da qui dovesse nascere una maggioranza e un governo, i “comunisti” resterebbero fuori. Insomma insieme per non far vincere Berlusconi ma impossibilitati a stare insieme per ogni altra cosa. Un patto obbligato e pure sincero. Ma anche obliquo e pure un po’ strambo.