Con la legge sulle intercettazioni non avremmo saputo nulla del caso Scajola

Pubblicato il 5 Maggio 2010 - 14:40 OLTRE 6 MESI FA

Claudio Scajola

Le intercettazioni e il caso Scajola. Apparentemente tra loro non ci sarebbe alcun legame mentre di fatto il vincolo c’è: nella vicenda che ha coinvolto l’ex ministro dello Sviluppo Economico ci sono assegni bancari e dichiarazioni di testimoni, non più coperti nemmeno da segreto perché depositati al Tribunale del Riesame, ma se fosse già in vigore la legge proposta dal ministro Alfano sulle intercettazioni, gli italiani del caso Scajola non avrebbero saputo proprio nulla.

I giornali non avrebbero potuto scriverne in questi 12 giorni, nè avrebbero potuto farlo per altri mesi.

Al contrario di quello che i promotori della legge raccontano, e cioè che con essa intendono impedire la pubblicazione selvaggia di intercettazioni segrete – secondo quanto riporta l’analisi di Luigi Ferrarella sulle pagine del Corriere della Sera – l’attuale testo in discussione alla Commissione Giustizia del Senato vieta, con la scusa delle intercettazioni, la pubblicazione non solo integrale ma neanche parziale, neanche soltanto nel contenuto, neanche soltanto per riassunto degli atti d’indagine anche se non più coperti dal segreto.  Questo fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza.

In più, la proposta di Alfano lega la violazione di questo divieto a un’altra legge già esistente (la 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle imprese per reati commessi dai dipendenti nell’interesse aziendale), e per ogni pubblicazione arbitraria fa così scattare non solo ammende maggiorate per i cronisti (da 2 a 10 mila euro, dunque con oblazione a 5 mila euro), ma soprattutto maxi-sanzioni a carico delle aziende editoriali fino a 465 mila euro a notizia.

I quotidiani nazionali, con quello che hanno pubblicato in questi 12 giorni – sebbene vero e soprattutto non segreto – rischierebbero già 4/5 milioni di euro e i loro cronisti oblazioni già per 60 mila euro a testa, sempre che il giudice non ritenga, a motivo della gravità del fatto, di negare l’oblazione e avviare il giornalista a un processo che potrebbe concludersi con la condanna a 2 mesi di arresto per ogni pubblicazione arbitraria.

Secondo la proposta di legge di Alfano, inoltre, condizione previa necessaria per la scrittura di un articolo su una vicenda giudiziaria sarebbe poi la qualifica di indagato quale unico criterio di interesse pubblico di una notizia. Il ministro Scajola, dunque, non indagato dalla Procura di Perugia e anzi considerato un «terzo» estraneo ai fatti di reato contestati ad Anemone e Zampolini per il controverso tragitto immobiliare di quegli 80 assegni, non avrebbe dovuto essere oggetto di nessun articolo. Un criterio necessario a giustificare il silenzio totale sull’accaduto, dunque.

Ma quanto questo sarebbe assurdo – scrive il Corriere della Sera – l’ha dimostrato indirettamente proprio un importante dirigente del partito di Scajola e di Alfano, il coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini, quando poche settimane fa convocò una conferenza stampa per sventolare alcune intercettazioni allegate a una memoria difensiva non più segrete, dalle quali a suo avviso emergevano non reati ma indebiti comportamenti di un dirigente del centrosinistra toscano. Iniziativa legittima, se l’onorevole Verdini la ritiene valida e se, come ogni giornalista, se ne assume la responsabilità rispetto ai confini della diffamazione già esistenti. Il coordinatore del Pdl dovrebbe però  farlo sapere anche al ministro della Giustizia, appena arriverà in Parlamento la legge che mette il bavaglio alla cronaca. E magari ricordarlo al premier Berlusconi che solo ieri ha affermato “candidamente”: in Italia «c’è fin troppa libertà di stampa».