Cina: “È la libertà, bellezza”. Il Partito Comunista non fa più paura. Anzi, ha paura

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 6 Novembre 2012 - 08:00 OLTRE 6 MESI FA
Il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (Ap-LaPresse)

PECHINO, CINA – Per 60 anni il popolo cinese ha avuto paura del Partito Comunista, ora è il Partito Comunista che inizia ad avere paura del popolo. (Leggi: Vietate le palline da ping-pong sovversive in Piazza Tienanmen) Con il 18° congresso vorrebbe gestire una transizione “pacifica”, riuscendo a far accettare almeno alle prossime due generazioni quello che ha funzionato per le cinque precedenti, il patto di Mao Tse Tung, riscritto 20 anni fa da Deng Xiaoping: noi governiamo, voi obbedite, insieme diventiamo ricchi, qualcuno un po’ più degli altri.

Finora ha funzionato perché il sistema comun-capitalista cinese ha potuto redistribuire i dividendi di una crescita economica che soprattutto negli ultimi due decenni viaggia a ritmi da locomotiva mondiale. Il Pil cinese del 2012 sarà il quintuplo di quello del 2002, la crescita negli ultimi 12 mesi è stata del 7-8%, ma questi numeri, che in Europa o in Usa farebbero la gloria imperitura dei governanti,  in Cina sono accolti con un tiepido entusiasmo.

Bill Clinton diceva: “That’s the economy, stupid”, “È l’economia, bellezza”, ovvero se gli indicatori economici sono apposto, tu vinci le elezioni. Questo bastava agli americani (e anche agli europei), ma questo non basta più ai cinesi.

La redistribuzione della ricchezza ha creato quello che in Cina prima non c’era: una classe media. Che oltre allo sviluppo economico chiede libertà e sicurezza, intesa non come protezione dai ladri ma come protezione dalle angherie delle autorità dello Stato e del Partito.

Una domanda al quale il Partito Comunista ha risposto negli ultimi mesi con due silenzi imbarazzati. Il primo sulla sparizione improvvisa del futuro leader Xi Jinping, che per due settimane è scomparso nel nulla, senza che se ne avessero notizie. Poi, così com’era svanito, è riapparso. Ma Xi non è lo Stregatto e la Cina è tutto meno che il Paese delle Meraviglie. Giornali e tv hanno taciuto, ligi alla censura imposta dal Pcc, ma i cinesi qualche idea se la sono fatta lo stesso.

Stessa cosa si è verificata quando il New York Times ha pubblicato un’inchiesta sulle fortune nascoste di Wen Jiabao e della sua famiglia: come mai un primo ministro di sbandierate umili origini che si era imposto come l’uomo della lotta alla corruzione aveva accumulato un patrimonio da 2,7 miliardi di dollari? La risposta del Pcc è stato censurare il Times e poi il web, ma la notizia è circolata ugualmente, anche perché non esistono chiusure ermetiche quando c’è Internet di mezzo.

Non basteranno più, quindi, i numeri dello sviluppo economico e gli slogan del maoismo, a tenere a bada l’inquietudine di una quota crescente di cinesi che chiede più rispetto dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori, più libertà d’opinione e di religione, una maggiore giustizia sociale.

Un inquietudine che si traduce in un preoccupante export di “cervelli”: nel 2010, ultimo anno del quale ci sono statistiche disponibili, 508 mila cinesi hanno sono emigrati in uno dei 34 Paesi dell’Ocse, i più sviluppati del mondo. Rispetto al 2000 sono il 45% in più e soprattutto sono in grandissima parte professionisti e laureati. Non hanno fiducia non tanto nella Cina, ma nel loro futuro nella Cina. Ci sarà spazio per la loro realizzazione individuale in una società sviluppista ed oppressiva?

E se la classe media è inquieta, il ceto un tempo chiamato “proletariato” è disperato. È paradossale, in una società “comunista”, il divario crescente fra il reddito dei più ricchi e quello dei più poveri, che in Cina è spesso un divario fra città e campagna: nel 2011, secondo l’Ufficio nazionale di statistica nelle zone rurali il reddito medio annuo è stato di 860 euro, mentre nelle zone urbane è stato di 2710.

Il Partito annuncia contromisure clamorose: da qui al 2020 vuole spostare 2 milioni di persone dalla provincia del Guizhou, zona di montagna particolarmente sfortunata, e reinsediarle in aree più sviluppate.

Ma la povertà dei cinesi di campagna, unita all’inquietudine dei cinesi di città, rischia di rovinare il congresso ai cinesi del Partito.