Bosnia, il censimento che può riaprire tutte le ferite della guerra

di Redazione Blitz
Pubblicato il 4 Novembre 2013 - 09:00 OLTRE 6 MESI FA
Bosnia, il censimento che può riaprire tutte le ferite della guerra

Bosnia, il censimento che può riaprire tutte le ferite della guerra

ROMA – “Li abbiamo sepolti sulle colline di Tomasica” confessa un vecchio soldato serbo, ecco dove sono finiti  1.274 morti, mussulmani e croati che non si trovavano più, 1.274 vittime delle Tigri di Arkan internate nei campi di prigionia e mai più trovate. Fino a pochi mesi  fa quando l’Istituto persone scomparse di Sarajevo ha cominciato a scavare e finora ha tirato fuori 333 cadaveri, tutti con un buco in testa. Diciassette sono bambini.

Ecco l’articolo di Francesco Battistini, corrispondente da Sarajevo per il Corriere della Sera:

Ci vuole tempo, non è detto che ci sia: la Bosnia-Erzegovina non ha ancora finito di contare i morti, ma l’Europa vuole che ricominci a contare i vivi. Vent’anni dopo, lo Stato più martirizzato dalle guerre balcaniche ha appena concluso il suo primo, storico censimento. Non se ne facevano dall’epoca jugoslava (1991) e per gli eurocontabili è il primo passo obbligato d’un Paese che ha avuto centomila ammazzati, ottomila desaparecidos, un milione di sfollati e, nonostante l’eurocrisi e indicatori economici peggiori del Kosovo, sogna d’entrare un giorno nell’Ue. «A Bruxelles hanno evidentemente le idee più chiare di noi», ironizza Zlatko Mijovic, opinionista di Oslobodjenie : «Ma tutto questo può avere un costo. Perché contare le teste significherà decidere quali teste contano di più. L’operazione presenta i suoi rischi». Ventiseimila funzionari porta a porta, due settimane di questionari, tre domande fondamentali: di che etnia sei, che religione pratichi, che lingua parli? Il quadro del Paese che ne uscirà — un primo abbozzo a fine gennaio, i risultati definitivi non prima del 2015 — non sarà solo un dato statistico: servirà a riscrivere il Cencelli della cariche pubbliche, quel che nel ventennio di pacificazione ha messo a tacere le armi, e poi a lottizzare la pubblica amministrazione, a stabilire le quote etniche, quanti posti spettino e a chi nei tribunali o alle poste, nella previdenza o nei trasporti…
Numeri da paura. Ci sono dopoguerra esplosivi come il Libano nei quali la comunità internazionale evita da anni d’organizzare i censimenti, proprio per non accendere la miccia di pericolose rivendicazioni. In Bosnia, l’idea europea è che vent’anni siano una parentesi sufficiente. «Quanto dovevamo aspettare ancora?», si chiede retorico il capomissione Ue, Peter Sørensen: «La riconciliazione passa per quest’indagine demografica, una pietra miliare». O una pietra tombale, come teme Mijovic: su una federazione musulmano-serbo-croata che non funziona, congelata dagli odi sopiti e mai sepolti, «paralizzata da una Costituzione inapplicabile, scritta nel ’95 in una sperduta cittadina dell’Ohio e bocciata dalla stessa Europa, annullata da una presidenza tricefala che ogni otto mesi passa d’etnia in etnia». Quando scoppiò la guerra c’era una popolazione di quasi 4 milioni e mezzo, la maggioranza del 43 per cento musulmana, il resto diviso fra serbi (31 per cento), croati (17 per cento), rom, ebrei. Lost in translation, tra scappati e sterminati, oggi la Bosnia ha 700 mila abitanti in meno e le nuove percentuali sono ben visibili: i serbi di Banja Luka fanno vita a sé, Sarajevo un tempo multiculturale si sta convertendo a un islamismo soft, il Paese s’abitua ai centri culturali iraniani e ai muezzin che sovrastano le campane. La domenica mattina, al mercatino del libro sulla Maresciallo Tito, il best seller è «100 domande sul Corano»: più richiesto di Ja sam Zlatan , la biografia d’Ibrahimovic. I quindici giorni del censimento hanno riacceso polemiche, sollevato sospetti: sui funzionari pagati in nero, reclutati fra i partiti, sorpresi al bar mentre compilavano in serie i questionari oppure trovati oltreconfine, a censire serbi extra; sugli espatriati tornati dopo anni, solo per un paio di giorni e solo per aumentare i numeri del clan; sui musulmani dell’enclave serba ignorati da tutti; sui rom che hanno rifiutato di dare le generalità o hanno fornito dati falsi… Un modulo su cinque è irregolare, ipotizza l’ong indipendente Popismonitor, a Srebrenica bisognerà ripetere i rilevamenti. Non è mancata qualche macabra gaffe, come rivelato dall’Osservatorio dei Balcani: nell’area di Pale, gli ispettori Ue sono finiti a dormire negli hotel dell’orrore che servirono a consumare gli stupri etnici.
Che Bosnia sarà, lo raccontava già vent’anni fa Danis Tanovic, il regista Oscar di No Man’s Land : la metafora dei due soldati, un bosniaco e un serbo, bloccati in trincea da una mina e da organismi internazionali preoccupati solo di rispettare le regole. Prima o poi dovranno uscire, però, questi numeri del censimento. L’anno prossimo si vota per le presidenziali, il dibattito sul Porcellum locale è infinito e inconcludente, «non è un caso che s’aspetti il 2015 — sintetizza prudente il vicesindaco di Sarajevo, Aljosa Campara — meglio non aggiungere caos al caos con le nuove percentuali». A distrarre l’opinione pubblica provvedono i «Draghi» della nazionale bosniaca, per la prima volta qualificati ai Mondiali 2014 in Brasile. A farla imbestialire, problemi più urgenti: gli undicimila randagi che scorrazzano per Sarajevo, per dirne uno, branchi feroci che mandano all’ospedale cinque persone al giorno ma che, secondo una legge del 2009 illuminata d’animalismo e benedetta dall’Ue, non si possono abbattere. C’è da rabbrividire fra i ringhi, quando si passeggia in centro. E in periferia, la sera, è consigliabile l’auto. Il Parlamento bosniaco sta provando a correggere la norma, viste le proteste e la carenza di canili. Ma sui randagi, pure stavolta, la voce dell’Europa s’è fatta sentire alta e forte: la severa raccomandazione è di non «condannare alla pena di morte» le povere bestiole. Giusto. Nella terra di nessuno si scoprono piano i morti, si contano pianissimo i vivi. E nel frattempo si salvano i cani.