Yara Gambirasio, Alfano, Renzi-Grillo: le prime pagine dei giornali

di Redazione Blitz
Pubblicato il 18 Giugno 2014 - 08:45 OLTRE 6 MESI FA

Il Corriere della Sera: “Yara confidò di aver paura”. Accogliere sì, ma ragionare. L’editoriale di Ernesto Galli della Loggia:

Salvare dalla morte in mare è un conto, accogliere stabilmente nel proprio Paese un altro. Il primo è un obbligo assoluto per ogni collettività civile, la seconda è una scelta politica. L’operazione «Mare nostrum» implica invece la contraddittoria sovrapposizione/identità delle due cose. In tal modo infatti viene percepita dall’opinione pubblica, e proprio perciò essa rischia alla lunga di divenire insostenibile.
Finora le autorità italiane hanno cercato di eludere la contraddizione ora detta ricorrendo a un escamotage . In pratica, salviamo dal naufragio gli immigrati ma, contravvenendo alle disposizioni europee, spesso evitiamo di identificarli nel solo modo possibile, cioè prendendo le loro impronte digitali e depositando queste in una banca dati europea. In tal modo è loro possibile cercare di andare (e restare) in qualche altro Paese dell’Unione Europea perché da esso, anche se scoperti, non potranno mai essere rinviati nel Paese di prima accoglienza che li ha identificati — come prescrivono sempre le norme europee — semplicemente perché un tale Paese non è mai esistito.
È in questo modo che l’Italia, alla quale sotto questo riguardo fa buona compagnia tutta l’Europa, evita di affrontare la questione cruciale: quanti immigrati possiamo (può l’Unione) assorbire? Nessuno lo sa e/o lo dice: dieci milioni, venti milioni? I numeri che premono dall’Africa e dall’Asia sono di quest’ordine, ma nessuno se ne cura. Sembra che neppure sia lecito porsi la domanda.

In nome della stabilità si sta saldando l’asse tra premier e Quirinale. La nota politica di Massimo Franco:

Il pranzo con mezzo governo era previsto da tempo, e in qualche modo aveva un sapore di routine. È quello che si fa sempre al Quirinale alla vigilia delle riunioni del Consiglio eropeo. Ma ieri ha finito per assumere un significato politico inaspettato: se non altro per l’irritazione che Forza Italia e il Movimento 5 Stelle hanno mostrato, con toni diversi, nei confronti di Giorgio Napolitano e di Matteo Renzi. Parlare di un asse tra capo dello Stato e presidente del Consiglio forse è prematuro. Ma rispetto all’inizio dell’esperienza dell’attuale governo, i rapporti sono cambiati in meglio. Si era sempre detto che quello di Renzi non era l’esecutivo di Napolitano, sebbene sia stato lui a designarlo come aveva fatto con Mario Monti e con Enrico Letta.
Almeno all’esterno, sembrava che nella formazione del governo avesse pesato soprattutto la volontà del premier. Il Quirinale si era limitato a chiedere alcune garanzie e a fornire qualche consiglio più o meno richiesto. Il risultato delle elezioni europee del 25 maggio e il semestre di presidenza italiana dell’Ue che comincia il 1° luglio, tuttavia, stanno cambiando questa percezione. Napolitano ritiene che il voto abbia stabilizzato una situazione delicata e in apparenza sempre in bilico; e dato legittimità a un Renzi che ne aveva disperatamente bisogno. Ma a essere decisiva è soprattutto la volontà di procedere con le riforme.

La prima pagina di Repubblica: “Iva e scontrini. Ecco il piano anti-evasione”.

La Stampa: “Yara, così è scattata la trappola del killer”.

Il Giornale: “Figuraccia Alfano”. Editoriale di Salvatore Tramontano:

Ma siamo sicuri che Alfano sia un mi­nistro dell’Interno? Forse serve un test del dna per saperlo. Non sem­pre, infatti,l’abito fa il monaco.Co­me non basta una poltrona per fare un buon mi­nistro. Serve qualcosa di più. Quello che ad An­gelino manca.
L’Italia non ha bisogno di politici con voglia di protagonismo, soprattutto quando in ballo ci sono delitti come quello di Yara. Quattro an­ni di lavoro, di misteri e di ricerche stavano per essere buttati al macero per la fretta di chiac­chierare di un ministro. Yara è morta a Mapel­lo, nel bergamasco, il 26 novembre 2010. Non è stato facile individuare il presunto assassino. Ci sono voluti 18mila test del dna e un lavoro di investigazione vecchio stile, lungo e faticoso. Poi un nome, un volto, un fermo. Dare la noti­zia al ministro era un atto dovuto. Nessuno po­teva sospettare che Alfano raccontasse tutto a tutto il mondo. È normale la rabbia di France­sco Dettori, procuratore di Bergamo. È norma­le perché su queste cose bisogna muoversi con responsabilità. Senza grida. Senza applausi. Senza fretta. «Era intenzione della procura mantenere il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato. Secondo la Costituzione esiste la presunzione di innocenza».
La procura temeva quella che è successo. Su Bossetti ci sono forti indizi. Il dna è una prova regina,ma non vale una confessione.Non c’èla certezza. Bossetti invece è stato già condanna­to. C’è aria di linciaggio. Ci sono le foto dei figli sbattute sui social network come figli del mo­stro. E le colpe dei padri non ricadono, mai, sui figli. Ma Alfano aveva fretta di mettersi una me­daglia al petto. Le sue risposte a Dettori sono francamente imbarazzanti. «Io non ho dato al­cun dettaglio. L’opinione pubblica aveva dirit­to di sapere». Sapere, certo. Ma con i tempi giu­sti, senza danneggiare chi non c’entra.

Il Fatto Quotidiano: “Yara e la fuga di notizie. La procura contro Alfano”.