Scuola impazzita, prof pregano i prof: “Non aiutate a copiare agli esami”

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 6 Giugno 2011 - 14:27 OLTRE 6 MESI FA

ROMA –In una scuola ci sono gli esami e ci sono tre professori, uno chiama gli altri due e li prega: per favore non aiuate gli alunni a capiare…Cos’è, una barzelletta sui dipendenti pubblici? No, è cronaca di una scuola impazzita. L’educazione alla legalità comincia da piccoli. E’ un dato di fatto. Ma allora vuol dire che l’Italia è un paese da questo punto di vista irredimibile. Nel nostro paese chi perde le elezioni, spesso, grida ai brogli; i calciatori simulano per ottenere dei vantaggi, e non solo quando fingono di subire un fallo in area sperando in un calcio di rigore, ma anche quando appena sfiorati si gettano a terra come colpiti da una saetta celeste. Nel paese dei furbi, dove l’arte di arrangiarsi è tesoro nazionale, se l’educazione alla legalità comincia da piccoli, in famiglia e a scuola, siamo senza speranza. Viviamo in un paese in cui un gruppo di insegnanti e presidi ha ritenuto necessario fare un appello, e va raccogliendo adesioni in giro, che invita quanti saranno commissari e presidenti di commissione negli esami di terza media o di maturità a non «chiudere un occhio» se qualcuno copia e a non «fornire ai propri allievi traduzioni o soluzioni» durante lo svolgimento delle prove d’esame. Non è uno scherzo, è la pura verità.

A molti, se non a tutti, copiare a scuola sembra normale, fisiologico. E questa diffusa convinzione è la prova provata della strana visione del mondo che regna in Italia. Fare i furbi non dovrebbe essere un comportamento socialmente accettato, tutt’altro. Ma da noi lo è. Un gruppo di presidi ed insegnanti che chiede ai propri colleghi di non far copiare è come un gruppo di vigili che chieda agli altri vigili di non chiudere un occhio sulle infrazioni, è come un gruppo di magistrati che chieda che tutti applichino la legge allo stesso modo. Un invito superfluo, nella migliore delle ipotesi, in molti paesi del mondo. Un invito rivolto da molti, quelli che si comportano correttamente, a pochi, quelli che fanno copiare, in un paese “normale”. Un invito che una sparuta minoranza rivolge all’assoluta maggioranza, in Italia.

I promotori dell’appello, al cui hanno aderito la Uil Scuola e l’Associazione nazionale presidi, scrivono di ritenere che la maggioranza degli insegnanti agisca di norma in modo corretto. Eppure il fatto stesso che abbiano sentito il bisogno di prendere una simile iniziativa lascia supporre che la minoranza che si comporta diversamente non sia quantitativamente insignificante. Del resto, l’anno passato l’Invalsi, i cui test in italiano e matematica ormai fanno parte integrante degli esami di III media, ritenne opportuno invitare gli insegnanti delle discipline oggetto della prova a rimanere fuori dalle aule, per evitare appunto che loro stessi potessero suggerire agli studenti, come era avvenuto l’anno prima.

Che si tratti di una numerosa minoranza come sostengono i promotori dell’appello, o della maggioranze come è legittimo temere, sta di fatto che un simile appello nel nostro paese non è certo pleonastico. Non sono rari i casi di insegnanti che fanno proprio le due cose su citate: tollerano che si copi o addirittura forniscono loro stessi un «aiutino» agli studenti. Il punto è che nella nostra cultura il copiare a scuola è spesso considerato come qualcosa di lecito, perfino come un atto di altruismo (da parte di chi fa copiare), mentre di solito percepiamo poco o nulla quanto simili comportamenti penalizzino l’equità e il merito, che richiedono il rispetto di regole certe nella valutazione di ciascuno. E anzi chi non lascia copiare da noi è di solito considerato un “infame”. Certo, copiare il compito in classe in seconda media non è commettere un omicidio, e chi copia a scuola non sarà più propenso a diventare un criminale di chi non copia ma, così “educato”, lo si manda a scuola di pessima futura cittadinanza. Modi che andrebbero sanzionati e corretti proprio da piccoli e a scuola, mentre vengono invece assecondati e avallati.

Dietro quelli che l’Invalsi chiamava pudicamente i «comportamenti opportunistici» di studenti e insegnanti non c’è una certa propensione nazionale al buonismo e all’indulgenza, c’è piuttosto, per quel che riguarda specificamente il corpo docente, la diffusione di una pedagogia fondata sulla comprensione e sul dialogo, che però non riesce ad affiancare all’una e all’altro la sanzione. Una pedagogia che partendo da presupposti corretti è stata stravolta divenendo la più sbagliata possibile. In questo quadro il copiare non è che un aspetto, emblematico certo ma non unico. La scuola italiana è una scuola che non premia il merito. C’è, nella nostra scuola, una percentuale di promossi elevatissima, sintomo di qualcosa che non funziona. E la colpa non è solo dei docenti, ma della società tutta. Quante volte si è letto di genitori infuriati che correvano a prendersela con i professori rei di aver dato un brutto voto invece di prendersela con il figlio/alunno?

In tanti insegnanti sembra prevalere un atteggiamento fatto di disinteresse per il problema, di bonaria indulgenza, a volte di una sostanziale giustificazione del copiare che chiama magari in causa l’insicurezza psicologica dello studente o il fatto che, se quest’ultimo copia, è solo perché l’insegnante ha evidentemente spiegato male. Né è da sottovalutare il fatto che, fingendo di non vedere chi copia, un insegnante evita le scocciature a non finire che un diverso comportamento potrebbe provocare. Eppure ci sono pochi dubbi sul fatto che, come scrivono i promotori dell’appello per la correttezza degli esami, l’educazione alla legalità comincia proprio con l’esempio di comportamenti coerenti con i valori e i principi che la scuola deve insegnare.

Probabilmente non diventeremo mai come i paesi anglosassoni in cui gli studenti si impegnano con un codice d’onore a non copiare, e in fondo è anche giusto che i ragazzi ci provino, fa parte dei ruoli. Speriamo che almeno i professori rientrino nei loro, di ruoli. E che la storia, purtroppo vera, del prof che sorpreso l’alunno a copiare, racconta di aver chiesto e condotto con il ragazzo un “confronto” al fine di scoprire chissà mai “perché” copiasse, somigli, come dovrebbe, più alla barzelletta che alla realtà.