Perché Berlusconi deve dire sì al Pd e andare anche in galera?

Pubblicato il 25 Aprile 2013 - 18:11| Aggiornato il 16 Febbraio 2023 OLTRE 6 MESI FA

La linea di Repubblica nei confronti del Governo di Enrico Letta ancora da nascere è espressa dal vice direttore Massimo Giannini in un editoriale in cui sono elencate le

“cinque misure qualificanti, e non una di più”

che il futuro governo o governissimo dovrà prendere:

“riforma della legge elettorale, riforma del bicameralismo, riforma del finanziamento della politica, un provvedimento per la riduzione della pressione fiscale su famiglie e imprese e un provvedimento di sostegno e rilancio dell’occupazione”.

Giannini non nomina l’Imu, ma la sua revisione si può considerare concessa in quanto compresa nella riduzione, o meglio “revisione” della pressione fiscale. Nemmeno un millimetro di cedimento su quello che sarà invece il vero terreno di scontro fra Pd e Berlusconi, la giustizia, che per Giannini significa, detta papale papale, amnistia e cioè

“amnistiando anche le pendenze giudiziarie (che continuano a inseguire il leader del Pdl, minacciandone a breve la fedina penale e la biografia politica, e di fronte alle quali il «citizen Berlusconi» si pretende ancora una volta «meno uguale» degli altri di fronte alla legge)”.

Giannini però è categorico. Una volta attuate quelle “cinque misure qualificanti”, scrive Giannini,

“a quel punto, missione compiuta. Ognuno recupera la sua libertà e la sua identità. Si sciolgono le Camere, si torna a votare. Con regole nuove e con un’Italia un po’ meno martoriata dai morsi della crisi”.

Giannini non spiega per quale ragione Berlusconi dovrebbe approvare le “cinque misure qualificanti”, inclusa la riforma di una legge elettorale che, in caso di nuove elezioni i tempi brevi, dovrebbe riportarlo a capo del Governo, senza avere nulla in cambio.

Ma questo è il bello e il misterioso della linea, che ha già portato il povero Pierluigi Bersani a un clamoroso e sciagurato starnazzare che ha compromesso forse per sempre il futuro del Pd.

Nell’editoriale, intitolato perentoriamente “I ricatti da respingere”, Massimo Giannini, non collega il fatto che è stato proprio quello “scontro più irriducibile” con Berlusconi nei tempi sbagliati, quando era forte, e “meno irriducibile” nei tempi altrettanto sbagliati, quando era in ginocchio a portare la sinistra, per colpa della

“sua stessa inadeguatezza”

(anche se Paolo Flores D’Arcais e Barbara Spinelli hanno idee precise in proposito)

“non solo a scendere a patti, ma addirittura a governare insieme all’avversario”.

Segue una interessante e brillante analisi della caporetto del Pd (in fondo Bersani e Badoglio, che fu il responsabile di quella storica, un po’ fisicamente si assomigliano:

 “Dal giorno in cui un Pd decapitato da una suicida guerra per bande e libanizzato da un’inopinata «intifada digitale», senza più leader all’interno e senza più follower all’esterno, si è arreso all’evidenza e si è consegnato anima e corpo alle cure di Giorgio Napolitano, lo sbocco delle «larghe intese» ha smesso di essere un cammino impercorribile ed è diventato un destino inevitabile.

[…]

“Quasi un «male necessario», secondo l’analisi dei «rapporti di forza» predicata da Gramsci e dimenticata dai suoi epigoni.

“Dopo aver insistito per due mesi con la contraddittoria strategia del «doppio binario» …. il Pd prende infine atto del principio di realtà. Non ha autonomia numerica né politica per fare altro, se non accedere allo schema di Napolitano: una «larga convergenza tra le forze che possono assicurare la maggioranza in entrambe le Camere».

[…]

“Alla fine, in Parlamento, è sempre il Pd che deve approvare i disegni e i decreti legge, votandoli insieme al Pdl. E la stessa esperienza del governo Monti sta lì a dimostrare chela «foglia di fico», oltre a non funzionare concretamente, neanche conviene politicamente: metti la faccia su provvedimenti che non hai nemmeno deciso e che magari neanche condividi, ma che gli elettori ti imputano comunque”.

Di qui il “tentativo di Letta”, che però, come avverte con ragione Giannini nell’ultima parte del suo lunghissimo articolo,

“resta difficile, temerario, per molti versi quasi proibitivo. Il «farmaco» delle larghe intese, oltre che amarissimo, può risultare mortale. Pensiamo solo alla lista dei ministri che il premier incaricato deve stilare, alla quale corrispondono almeno tre temi cruciali e non negoziabili.

“Chi sarà il ministro dell’Economia e del Welfare? È pensabile condividere con la destra la cancellazione immediata dell’Imu e delle tutele rimaste alla flessibilità del lavoro?

“Chi sarà il ministro della Giustizia? È pensabile un patto scellerato sul salvacondotto da accordare al Cavaliere o una rinuncia a una legge finalmente degna contro la corruzione, dopo il pannicello caldo della Severino? Chi sarà il ministro dell’Interno?

“È pensabile un segnale anche solo velato di abbassamento della guardia sul fronte della lotta alle mafie e alle criminalità organizzate? Se questa è la posta in palio, l’unico modo per evitare un drammatico compromesso al ribasso, o il fallimento del tentativo e quindi l’immediato ritorno alle urne, è respingere ogni ricatto sui nomi da scegliere e sulle cose da fare”.

Come poi si arrivi, da questo groviglio ai cinque punti dell’imperativo categorico di Giannini, questo è più difficile da capire.