Richard Jewell. Recensione dell’ultimo film di Clint Eastwood

Giuseppe Avico
Pubblicato il 22 Gennaio 2020 - 16:39 OLTRE 6 MESI FA
Richard Jewell. Recensione dell'ultimo film di Clint Eastwood

Richard Jewell. Recensione dell’ultimo film di Clint Eastwood

ROMA – Se si vuole parlare di una storia, non necessariamente una qualsiasi, ma di una storia vera, e soprattutto di un personaggio, non necessariamente uno qualsiasi, ma di un eroe americano e “invisibile”, possiamo affidarci a Clint Eastwood. Se si vuole approfondire ascesa e declino di un protagonista, quello appunto di un eroe non mascherato, possiamo affidarci alla mano di Clint Eastwood. Se si vuole capire come ciò che riteniamo di quotidiana affidabilità sia il più delle volte corrotto o alterato, chissà forse frutto di un meccanismo perverso di “eterno ritorno”, possiamo affidarci all’esperienza di Clint Eastwood. E non venitegli a parlare di pensione, perché quella può aspettare all’infinito. Eastwood ci ha portato sullo schermo molti film, tante storie reali e altrettanti personaggi da poter comporre un album di ricordi. Earl Stone (Il Corriere – The Mule), Chesley Sullenberger (Sully), Chris Kyle (American Sniper) sono solo alcuni di questi.

La trama di Richard Jewell. 

Ora, ci piace immaginare che non sia un caso, Eastwood ci racconta la storia di Richard Jewell. È la vera storia di un ragazzo che voleva fare il poliziotto e che una sera, nel 1996 all’Olympic Park di Atlanta, durante le Olimpiadi estive, scoprì una bomba e di sua iniziativa fece evacuare la zona. Quella bomba fece due morti e diversi feriti, ma senza Richard le vittime sarebbero state decisamente di più. Fioccarono gli elogi, i complimenti, la visibilità mediatica alla quale lui e sua madre non erano abituati. I media parlarono di lui come di un eroe. Ma quello fu solo un leggero e brevissimo soffio di felicità, al quale poi seguì ciò che ancora oggi (e sarebbe bene ricordarlo) fu un patetico processo sommario che lo vide come l’attentatore. Parliamo di un processo architettato dalle forze dell’ordine, smaniose di puntare il dito su di un probabile colpevole, e dai media, sempre in cerca del “mostro” al quale riservare le prime pagine.

Lo stile Eastwood. 

Clint Eastwood fa del cinema un’opera d’arte mai fine a sé stessa, mai remissiva o accomodante, ma sempre con il pregio e la capacità di farci riflettere e ragionare. Lo fa e lo fa bene, senza rinunciare all’intrattenimento cinematografico. Riesce a farci vivere determinate vicende dapprima con l’occhio critico di chi è esterno, poi con l’immedesimazione prodotta con una tale disinvoltura che fa di lui un maestro. I generi sono piegati allo svolgimento della narrazione, l’irresistibile tentazione della moda (cinematografica) viene ridimensionata al fine di raccontare qualcosa nella maniera più realistica possibile. Come in Sully o in American Sniper, così anche in Richard Jewell, Clint Eastwood ci pone nelle condizioni ideali di poter vivere la storia, anziché lasciarla piatta sullo schermo del cinema. Come detto all’inizio Eastwood è abilissimo nel tratteggiare le linee di una storia che possa farci facilmente immedesimare, ragionare ed emozionare.  

Nel caso di questo suo ultimo film, il soggetto è quello dell’articolo di Marie Brenner per la rivista Vanity Fair, mentre la sceneggiatura è affidata a Billy Ray (State of Play, Captain Phillips, Gemini Man). Sceneggiatura impeccabile, i personaggi vengono rifiniti con grande abilità e profondità, la narrazione vive dell’alternanza di momenti di grande efficacia drammatica, di altri di non troppo velata ironia, e di altri ancora dal forte impatto visivo. La regia di Eastwood è inattaccabile, costruita su di un modello classico che oggi fa specie riapprezzare, in senso positivo per lui, nel senso più negativo per altri registi pseudo innovatori. Dal punto di vista tecnico, in sostanza, il film gira benissimo, con una fotografia che è una bellezza per gli occhi. Le interpretazioni di Paul Walter Hauser, Kathy Bates e Sam Rockwell impreziosiscono il tutto, regalandoci prove attoriali impeccabili, intime, intense ed emozionanti.

L’eroe “invisibile”. 

I protagonisti dei film di Clint Eastwood sono eccezionali. Eccezionali perché sfaccettati, spesso realmente esistiti. Quello di questo suo ultimo film, Richard Jewell, è un ragazzo nemmeno troppo giovane che vive con la madre e che vuole entrare nelle forze di polizia. Il suo passato non è dei migliori, amicizie particolari e strani reclami sul lavoro. La sua vita cambia, cambia per sempre quella sera, quando si ritrova come guardia di sicurezza all’Olympic Park di Atlanta, durante le Olimpiadi estive. Fa il suo dovere, lo fa bene. Poi scopre una bomba sotto una panchina, allerta tutti, quasi nessuno gli crede. Una volta dichiarata la minaccia fa evacuare la zona. La bomba esplode e lui salva molte persone. Eroe? Quasi sicuramente, almeno per un po’. Poi la sua vita cambia ancora, viene accusato dalle stesse forze dell’ordine per le quali voleva lavorare. Attentatore? Sicuramente no, ma su di lui viene montato un caso, un processo mediatico aizzato come un fuoco dalla stampa e da una giornalista in particolare. Jewell passa dall’essere un eroe nazionale a vestire i panni di un “mostro”, carne fresca per la stampa, i facili articoli sul suo passato e le improbabili iperboli sulla sua persona.

Questo è il personaggio e la storia che Eastwood intende raccontare, come in America, ma così come in tutto il mondo, un uomo possa cambiare agli occhi degli altri, agli occhi di un’intera nazione, secondo specifiche alterazioni o corruzioni di sorta. È il meccanismo delle informazioni, il più delle volte false, che passano di mano in mano, di bocca in bocca, dalla polizia alla stampa e così via. Messo da parte l’eroismo di Jewell, perché di questo si tratta, la gente lo addita come assassino che odia l’America e gli americani, ma che un giorno prima portavano sull’altare dell’eroe patriota. E’ il meccanismo, purtroppo malato, di un certo giornalismo, quello dedito all’articolo-scoop, che non può prescindere dalla verità, ma che spesso ne distorce i lineamenti o ancor peggio ne ignora la sostanza. C’è stato Richard Jewell e ce ne sarà ancora un altro e un altro ancora; “l’eterno ritorno” frutto di un sistema che inciampa troppo spesso sul suo stesso piede. Eastwood centra il bersaglio.