Terremoto Cina, monaci buddisti cacciati dal luogo del sisma

Pubblicato il 22 Aprile 2010 - 07:39 OLTRE 6 MESI FA

Nonostante l’aiuto dato durante le operazioni di soccorso, i monaci buddisti sembrano non essere più graditi nelle zone del terremoto del Qinghai, la provincia nord occidentale cinese dove sono morte oltre 2 mila persone. A molti monasteri della zona è stato dato l’ordine di richiamare i loro monaci.

Il 21 aprile, durante le cerimonie di commemorazione nella giornata proclamata di lutto nazionale, non si è visto nessun monaco. I sopravvissuti hanno testimoniato che sono stati proprio i monaci ad arrivare tra i primi sui luoghi del disastro, portando cibo, medicine, tende, e aiutando spesso con le loro mani nude a scavare tra le macerie.

I circa 12 mila soldati cinesi impegnati nell’area intanto proseguono con le operazioni di soccorso, ma spesso si trovano in difficoltà, dovendo combattere con problemi quali il freddo e l’altitudine. Molti hanno anche problemi di comunicazione linguistica con i sopravvissuti tibetani. Problemi che invece non incontrano i monaci tibetani, la maggior parte dei quali sono abituati al freddo e all’altitudine e comprendono la lingua del posto.

Secondo Robbie Barnett, direttore del programma di studi tibetani alla Columbia University, il contributo fornito dai monaci buddisti crea un dilemma per la leadership comunista, che resta diffidente verso il clero buddista per la sua lealtà al Dalai Lama.

Yixi Luoren, capo del monastero di Ganzi, ha detto che 150 dei suoi monaci si erano recati a Yushu per dare il proprio contributo alle ricerche e ai soccorsi, ma sono dovuti poi ripartire per ordine della Commissione Affari Religiosi del Partito Comunista della prefettura di Ganzi.

“Ce lo hanno comunicato per telefono – ha detto Luoren – senza spiegarci bene la ragione, ma noi potremmo pensare che lo abbiano fatto perché c’erano ormai troppe persone e volevano che noi tornassimo a casa”.

Woeser, poetessa e attivista tibetana di base a Pechino, ha spiegato che simili ordini di rientro sono stati dati a molti altri monasteri. “Una chiara ragione per andarsene non è stata loro data – ha detto la Woeser – ma l’ordine è stato rigido. I monaci non volevano andarsene, ma hanno dovuto farlo. Ufficiali locali hanno loro detto in lingua tibetana che dovevano lasciare Yushu, altrimenti ci sarebbero stati problemi”.