Banche e finanza, Obama ci prova: “Raddrizzeremo le gambe a Wall Street”

Il presidente Usa Barack Obama

La data è quella di giovedì 22 aprile. Archiviata la battaglia sulla riforma sanitaria, il presidente Barack Obama prenderà la parola al Cooper Union di New York per lanciare la sfida al sistema finanziario statunitense e tentare di piazzare un’altra riforma storica.

La scelta del luogo non è casuale. Obama, infatti, torna al Cooper Union a due anni di distanza e  l’ultima volta che c’era stato, nel marzo 2008, si era in piena campagna elettorale e la crisi iniziava a “mordere” patrimonio, lavoro e portafogli degli statunitensi. Proprio dall’ateneo newyorkese, quello che di lì ad un pugno di mesi sarebbe diventato il primo presidente nero aveva tuonato contro la “deregulation” del sistema finanziario, etichettandola come la principale causa del disastro economico planetario.

Due anni dopo, mentre gli analisti si chiedono se la crisi sia finita o meno e dibattono sui tempi medio lunghi in cui l’occupazione si deciderà a dare segni di ripresa, Obama è pronto all’offensiva. Il testo della riforma, definita dallo stesso Obama “la più vasta dai tempi della grande depressione del ’29” è già pronto da quasi un anno ma l’urgenza delle misure anticrisi prima, e la battaglia sulla sanità poi, ne hanno ritardato la discussione. Un occhio ai numeri rende già l’idea delle dimensioni dell’impresa: 89 cartelle di modifiche articolate su cinque capitoli per proporre, con una sola riforma,  una “robusta supervisione e regolamentazione delle aziende finanziarie”, “stabilire regole complessive dei mercati finanziari”, “proteggere investitori e consumatori dagli abusi”, “fornire il governo degli strumenti adeguati per combattere la crisi finanziaria” e “favorire la nascita di regolamenti standard a livello internazionale”.

Il cuore del progetto di legge redatto dal senatore Christopher Dodd sta nell’introduzione di forti limitazioni alle attività delle banche. In particolare si chiede che scelgano se operare come banche di deposito, commerciali o di investimento. Una vecchia separazione introdotta da una legge approvata subito dopo il crollo del 1929 e poi cancellata. Le banche, però, non ci stanno e scatenano lobby, mobilitano il partito repubblicano e minacciano ritorsioni ai candidati democratici in termini di contributi. In parole povere la divisione imporrebbe alle banche una scelta finanziaria definitiva: o si rischia cercando i profitti più alti, o ci si accontenta dei soldi dei risparmiatori e si lavora su rendimenti bassi ma garantiti.  Una banca di investimento, per definizione, si può permettere di piazzare i suoi soldi su investimenti incerti ma dai ritorni potenziali più alti rispetto ad una di deposito. È il caso, ad esempio, degli hedge funds, o di certe forme di cartolarizzazioni, quelle operazioni che hanno scatenato la crisi dei mutui subprime.

Negli Usa della crisi, però,  è successo che mentre la Lehmann Brothers veniva sacrificata facendo scomparire migliaia di posti di lavoro, la Goldman Sachs veniva salvata grazie a massicci aiuti pubblici. Soldi che la Goldman ha utilizzato esattamente come prima, comportandosi, cioè da banca d’affari. E sono proprio contraddizioni come questa che la riforma finanziaria vuole cancellare una volta per tutte.

Ma nella riforma c’è anche altro a cominciare da un forte giro di vite su hedge fund, derivati e affini. L’obiettivo è quello di farli “registrare” presso il Sec, equivalente della Consob negli Usa, in modo tale da rendere possibili i controlli. Altro punto cruciale, e molto discusso, è la questione dei “too big to fail”, quegli istituti che anche in caso di bilanci in profondo rosso non possono essere lasciati fallire per le conseguenze complessive sul sistema economico. L’intenzione di Dodd e Obama, qui, è quella di procedere ad un sistematico ridimensionamento, per  impedire che in futuro si creino istituti in grado di condizionare così tanto il mercato.

Il discorso non vale solo per le banche. Uno degli obiettivi dei democratici è quello che si possa ripetere un nuovo caso Aig, ovvero quello di una società di assicurazioni che si salva dalla bancarotta grazie ai soldi pubblici e poi distribuisce parte di quegli aiuti (165 milioni di dollari su 180 miliardi ricevuti) in bonus per quei manager che hanno portato la compagnia sull’orlo del precipizio. Da qui, come richiesto anche dalla Federal Reserve, l’idea di istituire una «resolving authority», che consenta al governo di intervenire nei confronti delle società finanziarie non bancarie con la stessa forza, flessibilità e profondità con cui si può agire nei confronti del sistema bancario. Non manca, poi, un occhio di riguardo per chi la crisi l’ha subita, ovvero i consumatori. La riforma punta alla creazione di un’autorità indipendente di tutela dei consumatori di servizi finanziari. La nuova authority, oltre ad interfacciarsi con il legislatore, avrà la funzione di sanzionare e proporre integrazioni normative.

Proprio la Goldman Sachs e i mutui subprime rischiano di avere un ruolo decisivo nei tempi della riforma soprattutto dopo che la Sec ha accusato l’istituto bancario di frode proprio sui mutui subprime. In Italia si sarebbe gridato alla “giustizia ad orologeria”. Negli Usa, ci si è limitato a qualche polemica sulla tempistica ma tutti sembrano, come logica impone, molto più interessati a capire se frode ci sia effettivamente stata. Di certo le accuse della Sec arrivano per Obama come un aiuto, un motivo in più per sostenere che le condizioni che hanno determinato la crisi non sono state ancora scardinate e che, di conseguenza, la riforma è urgente. Giovedì il presidente si limiterà a ricordare, come già detto in precedenza che la crisi “ha già bruciato migliaia di miliardi di dollari in risparmi delle famiglie ed è costata otto milioni di posti di lavoro”. Numeri in un Paese in cui la politica si fa con i numeri e con le lobby.

Il primo, non trascurabile problema, è che come per la riforma Sanitaria ad Obama serve almeno il voto di un senatore repubblicano. Voto, che, almeno per il momento ancora non c’è. Al contrario i repubblicani dopo aver a lungo accusato il presidente di essere amico delle banche ora si schierano con le lobby e promettono ostruzionismo.

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