Le immagini della protesta dei sindaci (foto LaPresse)
ROMA – Ci sono i sindaci, tutti con le loro fasce tricolore. Poi ci sono i lavoratori della giustizia interessati dal taglio dei mini tribunali. Non ci sono fisicamente, ma protestano anche loro, presidenti e dipendenti delle province in odore di taglio. Loro preferiscono rivolgersi direttamente al Tar per scongiurare la sforbiciata geografica e di costi.
Il 24 luglio è il giorno della rivolta contro la cura dimagrante imposta dal governo Monti. Appuntamento davanti a Palazzo Madama, sede del Senato. Tutti uniti per protestare contro i tagli imposti dall’esecutivo. Che poi questi tagli siano in qualche modo collegati al debito pubblico che macina record e allo spread che continua a veleggiare oltre la assai poco rassicurante e sostenibile quota 500 non sembra affatto affare loro.
L’Anci, associazione dei Comuni italiani che ha organizzato la protesta e invita i sindaci a portare stemmi e fasce tricolori ce l’ha con la spending review e con quelli che definisce “tagli lineari”. La minaccia principale è la stessa ventilata dalle province: ci tagliate i fondi, tagliamo i servizi alla collettività, soprattutto quelli fondamentali come le scuole. “La contrarietà al decreto – spiega il presidente Anci Graziano Delrio – è inevitabile nel momento in cui constatiamo ancora una volta che il testo configura tagli lineari, e non interventi puntuali sugli sprechi”. Non di correzione di spesa si tratta secondo i Comuni ma di “una nuova manovra, che si aggiunge ai 22 miliardi di contributi già chiesti ai Comuni negli ultimi 4 anni, e che farebbe schizzare al 23% il taglio sulla complessiva spesa corrente del comparto”.
Ma i Comuni non sono i soli ad essere in rivolta. Protestano le province che il governo ha destinato ad accorpamento o scomparsa. Si tratta non di protesta dal basso visto che la maggioranza degli italiani non è contraria alla soppressione ma di protesta di chi le province gestisce. Soprattutto non è protesta compatta come quella dei comuni ma protesta di chi si vede togliere ente, poltrona e territorio tutto insieme. Protesta e si rivolta Leonardo Muraro, leghista e presidente della provincia di Treviso. Si dice “furente” perché la sua provincia scompare per 23 chilometri quadrati e perché verrà accorpata a Belluno che ha caratteristiche troppo diverse. Ancora una volta, almeno formalmente, non è problema di tagli ma di metodo. Muraro avrebbe preferito una provincia del Piave con un pezzo della provincia di Venezia.
Si rivolta anche un altro leghista, il vicepresidente dei deputati della Lega Nord, Sebastiano Fogliato che per difendere la provincia di Asti usa l’argomento “alcolico” con la stessa disinvoltura con cui Anselmo usava quello ontologico. Asti non si può cancellare è la teoria di Fogliato perché prima ancora che nome di provincia e di comune è nome e marchio di spumante. Senza provincia soffrirebbe il mercato dello spumante locale. Non ditelo a quelli di Montalcino altrimenti potrebbe spuntare una nuova richiesta di provincia.
Scendendo a sud la situazione non cambia. Si rivoltano a Brindisi e si rivoltano soprattutto a Benevento, provincia destinata all’accorpamento con Avellino. Irpinia e Sannio insieme? Non sia mai. Allora rispunta l’idea della “secessione” dalla Campania con fuga nella regione confinante per creare una nuova provincia, il Molisannio.
Poi ci sono le altre “rivolte” tutte contro i tagli della spending review e non solo. Rivolte dei farmacisti e persino dei benzinai. A loro non serve scendere in piazza davanti al Senato, si limitano a scioperi e serrate. I benzinai ce l’hanno con le mancate trattative, gli sconti di week end che erodono i loro profitti e lasceranno a secco gli italiani (quelli che ancora possono farlo) che il 4 e 5 agosto proveranno a partire per le vacanze.