ROMA – Era il novembre del 2002 quando padre Jean-Marie Benjamin nel salotto di Porta a Porta rispose a Bruno Vespa con una logica inoppugnabile: “Si chiede a Saddam Hussein di provare che non possiede armi di distruzione di massa. Ma come si fa a provare che non si possiede qualcosa?”. Di lì a poco, nel marzo 2003, la coalizione anglo-americana invadeva l’Iraq con la conseguente caduta del regime di Saddam, ad aprile dello stesso anno. Dopo 12 anni Padre Benjamin torna a parlare di quegli eventi e delle loro inquietanti conseguenze in un libro intitolato Iraq – L’effetto boomerang. Da Saddam Hussein allo Stato Islamico (Editori Riuniti).
Già impegnato, fin dal 1997, in un temerario lavoro di denuncia sulle tragiche condizioni del popolo iracheno, sottoposto ad un crudele embargo prima e ad una straziante occupazione poi, Padre Benjamin seppe dire con profetico anticipo quello che oggi appare evidente ai più: l’invasione dell’Iraq nel 2003 fu una scelta scellerata, di un figlio che non seppe far tesoro dell’insegnamento del padre. Nella prima guerra del Golfo, Bush senior si era opportunamente fermato sulla frontiera tra Iraq e Kuwait per evitare di abbattere il regime e sconvolgere così gli equilibri regionali. Bush figlio portò a termine la missione, eliminando l’ultimo baluardo di stabilità che per decenni aveva costituito un argine a tutto un coacervo di rivendicazioni islamiste e rivoluzionarie potenzialmente disastrose per l’Occidente.
Oggi gli Usa e i loro alleati europei sono alle prese con il sedicente Stato Islamico, un mostro inarrestabile che essi stessi hanno concorso a creare. E’ l’effetto boomerang evocato nel titolo. Ma il libro di Padre Benjamin appare ancor più attuale se si considera un recente “deja-vu“: secondo un’inchiesta del Pentagono rivelata dal New York Times alcuni report della Cia sarebbero stati manipolati, prima di finire in mano all’amministrazione Obama, al fine di fornire più rosei risultati in merito alla guerra all’Isis. Coincidenza (o forse aberrante vizio) che nel 2003 i report dell’intelligence opportunamente “riadattati” suggerirono che l’Iraq fosse in possesso di armi di distruzione di massa, offrendo a George W. Bush il movente per dichiarare guerra a Baghdad. Le famose armi non furono mai trovate.
Il libro di Padre Benjamin punta a smascherare le aberrazioni, di allora come di oggi, in Medio Oriente. Attraverso documenti e testimonianze inedite, l’autore racconta l’ultimo quarto di secolo di storia irachena, vissuto in prima persona. L’analisi scorre in forma di diario tra flashback e tempo presente. Luogo e data in testa ad ogni capitolo aiutano il lettore ad orientarsi in un arco temporale scandito in tre cesure: il 1991 (Prima Guerra del Golfo, Bush padre), il 2003 (Guerra d’Iraq, Bush figlio). Fino ad arrivare ai giorni nostri, il 2015 (Guerra all’Isis).
La denuncia di Padre Benjamin parla di numeri della miseria, di 2.800.ooo morti iracheni tra embargo e occupazione. Di bimbi cresciuti a bombe e stenti e oggi divenuti giovani adulti risentiti. Di 935 bugie dette dall’amministrazione Bush al tempo dell’invasione, di cui 232 pronunciate dallo stesso presidente in altrettante dichiarazioni ufficiali. Delle rivelazioni esclusive di Tareq Aziz, ex ministro degli Esteri e vicepremier iracheno colpito lo scorso 5 giugno da un infarto mentre era in carcere, dove si trovava da dodici anni.
Aziz, cristiano caldeo, fu il “volto presentabile del regime” di Saddam Hussein agli occhi della comunità internazionale, per la febbrile attività svolta quando era a capo della diplomazia irachena. A cavallo tra il 1990 e il 1991, l’allora ministro degli Esteri aveva cercato in tutti i modi di impedire la guerra di una coalizione internazionale a guida americana dopo l’invasione del Kuwait. Lo stesso fece nel 2003: il 14 febbraio si recò in Vaticano, nel vano tentativo di sventare l’imminente conflitto. Durante il suo viaggio in Italia Aziz incontrò anche Padre Benjamin rivelandogli informazioni scottanti, contenute nel libro. Si consegnò agli americani nel 2003 e nel 2010 fu salvato dalla condanna a morte per crimini contro l’umanità, grazie a una mobilitazione dell’Unione europea e del Vaticano. Per chiedere che ad Aziz fosse risparmiata la vita il leader radicale Marco Pannella aveva fatto uno sciopero della fame, e l’allora ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, era volato personalmente a Baghdad.
Saddam era un dittatore sanguinario, su questo non v’è dubbio. Ma un dittatore, fa orrore dirlo, è meglio di uno stato smembrato o di un Califfato. E la verità è che dalla sua destituzione e fino al 2011, data ufficiale di cessazione delle ostilità, il conflitto iracheno si tramutò in una guerra di liberazione dalle truppe straniere, considerate invasori da alcuni gruppi armati, e in una guerra civile fra varie fazioni.
Tutt’ora l’Iraq è smembrato, in preda a una guerra feroce nella quale l’Isis è riuscito a ritagliarsi una fetta di territorio che, tra Iraq e Siria, è grande più o meno quanto l’Italia. Dal 2003, ma in particolare dal 2006, con l’avvento del governo di Nuri al Maliki, gradito sia all’Iran che agli Stati Uniti, le elite politiche delle regioni a maggioranza sunnita si sono sentite escluse dal potere centrale e dalla lucrosa gestione delle risorse economiche del Paese. Se poi si sovrappone la cartina dei pozzi di petrolio e gas naturale a una mappa politica del Paese ecco che viene facile intuire quali siano le dinamiche del conflitto in corso. L’Isis ha dato a molti giovani dell’Iraq sunnita la forza di rivalersi su quella che percepiscono sia stata un’ingiustizia commessa nei loro confronti.
Il libro di Padre Benjamin parla anche di questo. L’autore descrive con precisione organizzazione, strutture, logistica e reclutamento dello Stato Islamico. Chi lo finanzia e chi gli procura le armi? Chi è Abou Bakr al Baghdadi e perché centinaia di giovani europei partono per unirsi alla jihad? E ancora: del gioco pericoloso dell’Arabia Saudita e del Kuwait. Del presidente siriano Bashar Al Assad e della coalizione sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah. E di quel che rimane dello Stato nazione iracheno, sorto un secolo fa sulle ceneri dell’Impero ottomano.