Genova, alluvione e arresti: onda di morte “falsificata”?

di Franco Manzitti
Pubblicato il 16 Ottobre 2012 - 12:21 OLTRE 6 MESI FA
L’alluvione di Genova del 2011 (foto Lapresse)

GENOVA – Si può ritardare l’ondata di piena di un fiume che esonda dal suo alveo nel cuore di una città cementificata, travolge, distrugge e uccide sei persone, anche due bambini innocenti con la loro mamma? Si può far comparire nelle carte che quell’onda di fango marcio, carico di detriti e arbusti, precipitata dall’alto, è arrivata come una bomba alle 12,38, invece che alle 12,15 di quel maledetto 5 novembre dell’ultima tragedia alluvionale genovese?

Si possono falsificare la carte della Protezione Civile, magari per coprire le responsabilità di chi non ha agito in tempo per avvertire, segnalare, salvare quelli che stavano di sotto, dove l’acqua assassina sarebbe arrivata con la sua potenza distruttrice? Si può far questo, magari per coprire le responsabilità di tecnici della stessa Protezione Civile, che non avevano capito, di amministratori comunali che non avevano reagito, di sindaci che non avevano operato di conseguenza?

Undici mesi dopo, anzi undici mesi e quindici giorni dopo, quando l’anniversario della tragedia che ha inginocchiato Genova si avvicina tocca alla bomba giudiziaria scoppiare con gli arresti domiciliari di Sandro Gambelli, responsabile della Protezione Civile del Comune di Genova, con gli avvisi di garanzia di Pierpaolo Cha, direttore del reparto Sicurezza e Rischi e il “mitico” Sergio Del Ponte, ex capo del corpo dei Vigili Urbani, i cantunè genovesi, tutti accusati di falso e calunnia per avere modificato le carte, i rapporti di quella tragica giornata.

Le cariche di questi signori, che ora l’alluvione mortale trascina nel gorgo riguardavano la responsabilità operativa della Città Sicura: erano alti dirigenti della Protezione Civile, dei Vigili del Fuoco, delle Guardie Municipali.

Avrebbero modificato “a babbo morto”, cioè a vittime già trascinate via dall’onda assassina, i tempi della tragedia in un rapporto che avrebbe avuto l’obiettivo di posticipare l’evento per spiegare i ritardi della macchina comunale che fu travolta dall’onda di piena, come quei bambini e quelle mamme, quella ragazza che stavano correndo verso casa dopo essere usciti da scuola e che hanno fatto una fine tragica nel portone di una casa o sulla strada, diventa il Rio delle Amazzoni, mentre i vigili urbani salvavano altre decine di vite più a valle, dove l’acqua era arrivata con minore violenza.

Erano morte quattro donne e due bambine, compresa una bimba di un anno perchè le scuole erano aperte e perchè nessuno aveva avvertito che la bomba dal cielo sarebbe stata tanto violenta da far espodere quel fiume, il rio Fereggiano, che scende dalla collina cementificata e precipita tra le facciate delle case verso una delle zone più fittamente urbanizzate del mondo occidentale, il quartiere di Marassi, dove sorge anche lo stadio di Marassi, tra rioni popolari nella cui pancia scorrono rii, torrenti, rigagnoli, “tombati” coperti come sarcofaghi dal cemento di una speculazione edilizia che ha stuprato il territorio genovese e rispetto al quale si può solo o farsi il segno della croce, quando la pioggia tropicale gonfia a monte quei corsi d’acqua o immaginare opere di deviazioni e di scolmamento dell’acqua, che non ci sono più i fondi per costruire. Trecento milioni di euro che Genova insegue come l’Araba fenice, sapendo bene che se ripiove siamo daccapo.

E così un anno dopo, mentre i parenti ancora disperati di Angela Chiaromonte, 40 anni, Evelina Pietranera, 50 anni,Serena Costa, 19 anni, Siprese Diala, 29 anni e delle sue figlie Gioa di 8 anni e Gianissa di uno, non sanno darsi pace, arrivano i provvedimenti della Procura di Genova che stava indagando sui “tempi” di allarme e sulle reazioni della macchina comunale, sui rapporti e le decisione che il sindaco Marta Vincenzi, la sua giunta comunale e tutta la Protezione Civile avevano preso durante e dopo quel terribile 5 novembre. E così dagli atti dei magistrati saltano fuori contraddizioni, tentennamenti, “non ricordo” e l’accusa principale: quella di avere truccato i tempi dell’onda, di averla posticipata dalle 12,15 alle 12,48. Non solo: di avere anche indicato la presenza di una sentinella incaricata di controllare l’ondata di piena e che non segnalò la catastrofe incombente, perché era in un altro posto. Non poteva avvertire, non poteva segnalare: allora perché nel rapporto compare come elemento decisivo nel testimoniare “prima” che la piena era sotto controllo e poi nel non testimoniare in tempo, vista la rapidità della precipitazione?

L’arresto di Gambelli, gli avvisi a Cha e Del Ponte sono oggi un altro tipo di alluvione, accompagnata da altre ondate che i periti nominati dalla Procura hanno alzato sulla macchina comunale, segnalandone disfunzione, scollegamenti, farraginosità: insomma un piano di emergenza inefficace.

Il perito del Tribunale professore Alfonso Bellini ha scritto: “una struttura elefantiaca e vetusta, basata su una macchinosa organizzazione della catena di comando e un conflitto di competenze tra vari enti”.
Sono parole come macigni del peso di quelli che il maledetto rio Fereggiano ha scaricato a valle, esplodendo fuori dal suo alveo, uccidendo solo sei volte per un caso fortuito, riconosciuto tale dagli inquirenti, e per il coraggio di tanti volontari, vigili del fuoco, gente comune che riuscì a salvare i cittadini inermi, che non sapevano quello che stava capitando.

Quanto lunga era la catena di comando e dove arrivava? E’ chiaro che non c’erano solo i tre colonnelli della sicurezza della cosiddetta era di Marta Vincenzi, sindaco che pagò duramente quella vicenda con la sconfitta nelle Primarie per restare in sella, due mesi e mezzo dopo la tragedia.

Ci sono gli assessori delegati alla Sicurezza, come l’Idv Francesco Scidone e la stessa Vincenzi, cui risalì la responsabilità di non chiudere le scuole, e la giunta che avallò quelle decisioni, diventate una vera croce.
Oggi l’ex sindaco si difende dichiarando che se quelle accuse ai suoi uomini fossero vere e provate “lei se ne sentirebbe morire”. E non c’è chi non difende le figure dei tre dirigenti capitati nel ciclone, ricordando la loro competenza, la loro dedizione, la loro capacità. Come è possibile, allora che abbiano falsificato?

L’inchiesta del procuratore capo aggiunto Vincenzo Scolastico è già zeppa di testimonianze, come quella del volontario Roberto Gabutti, responsabile di Associvile, che non riesce a ricordarsi esattamente cosa successe quella mattina, quali erano stati i tempi della sciagura e dei soccorsi. E per questo ha messo nei guai i “colonnelli” e tutta l’amministrazione, perché i non ricordo legittimano la tesi del falso sulla cronologia della sciagura.

Per i parenti delle vittima “l’inchiesta non servirà a niente”: Flamur Dyala, l’uomo albanese che nella tragedia ha perso la moglie e le due bambine e che sta tornando in patria per celebrare il secondo funerale, quello che nella sua religione si fa a un anno dal primo, non urla neppure più il suo dolore. “In Italia si fa così, rubano, vanno in galera e due giorni dopo sono fuori, nessuno mi restituirà la mia famiglia.”

E tacciono Marco Costa e Rosanna Cenni, che hanno perso la figlia Rosanna di 19 anni, corsa a scuola a prendere il fratellino minore. Lui si salvò aggrappandosi a una grata. Lei è morta trascinata via da un’onda nera che nelle carte del comune non era ancora partita.

A Genova venti anni fa un sindaco, Romano Merlo, socialdemocratico in una giunta molto mista con l’allora Pds, fu scaricato sotto l’accusa di avere truccato il numero dei visitatori della attesissima mostra colombiana che celebrava il Cinquecentesimo anniversario della Scoperta dell’America. Lo sostituirono con l’attuale presidente della Regione, Claudio Burlando, Pd. Pagò la falsificazione di qualche funzionario, di cui non sapeva nulla. Ma era un falso innocuo se non per il prestigio un po’ scosso di quelle Celebrazioni. Non c’erano, come oggi, cinque morti di mezzo. Tutto si poteva immaginare, ma non una Genova falsaria.