Blocco e taglio delle pensioni d’oro: un’inutile “grida manzoniana”

di Pino Nicotri
Pubblicato il 16 Dicembre 2011 - 16:07 OLTRE 6 MESI FA

Può darsi che il ministro abbia ragione per quanto riguarda faccendieri, grand commis e boiardi di Stato, ma per quanto riguarda noi giornalisti credo proprio che sbagli. E’ ben vero che nel nostro istituto previdenziale – l’Inpgi, che NON riceve soldi dallo Stato ma solo ed esclusivamente dalle tasche dei giornalisti – il sistema contributivo ha debuttato solo nel 2007, ma è anche vero che stipendi – e quindi pensioni – di quel calibro sono appannaggio solo di direttori e quant’altri di livello più o meno simile, i cui stipendi, e gli annessi contributi man mano pagati all’Inpgi, nulla hanno a che vedere con i normali giornalisti.

Se un ex direttore del Corriere della Sera o di una testata Rai o Mediaset ha una pensione superiore ai 200 mila euro l’anno è solo perché con le trattenute dello stipendio ha man mano versato all’Inpgi, per gli anni dovuti, una cifra tale che gli consente di avere, beato lui, un simile vitalizio. Ma in ogni caso: quanti sono i giornalisti con pensione superiore ai 200 mila euro l’anno? Sicuramente non milioni e neppure migliaia o anche solo centinaia, visto che i giornalisti titolari di pensione diretta sono solo 5 mila. E’ quindi chiaro, perché dimostrato dati alla mano, che per quanto riguarda i giornalisti pensionati “nababbo” il taglio del 25% è pura demagogia populista: non solo NON porterà a risparmi significativi, ma oltretutto NON riguarda risparmi delle casse dello Stato bensì delle casse di un istituto privatizzato. A meno che questo governo stia pensando di fare quello che i governi precedenti non sono riusciti a fare: mungere anche l’Inpgi. E’ puro populismo anche l’estensione ai pensionati Inpgi del blocco della perequazione, in base al quale “tutti i trattamenti pensionistici superiori a 2 volte il minimo INPS non avranno alcun adeguamento nel biennio 2012–2013”, come ha già chiarito il vertice del nostro istituto previdenziale. Questo infatti è privatizzato, vale a dire – ripeto – NON riceve soldi dallo Stato, se la cava da solo. Per giunta con l’obbligo di avere un andamento dei bilanci che garantisca la buona salute – e quindi il non ricorso a soldi pubblici – per almeno 50 anni a venire.

E’ vero che il regolamento Inpgi si richiama alla perequazione stabilita dal sistema generale obbligatorio, ma è anche vero che – oltre a quanto segnalato dalla Corte Costituzionale – ci possono essere delle deroghe. Come per esempio la deroga che equipara l’età pensionistica delle giornaliste a quella dei colleghi maschi in un arco temporale più lungo – 10 anni anziché 7 – di quanto stabilito dal governo per gli assistiti Inps. Se il ministro Fornero anziché spremere una fugace lacrima si documentasse anche riguardo l’Inpgi, scoprirebbe cose sulle quali forse potrebbe dire la sua. Anni fa una legge ha permesso la ricostruzione a fini pensionistici delle carriere di chiunque nel dopoguerra avesse lavorato in modo non regolarizzato come giornalista nei giornali di partito, sindacato e simili. La ricostruzione avvenne a totale carico dell’Inpgi, fu infatti questo istituto a versare ex post TUTTI i contributi necessari a fare avere la pensione, pagata dallo stesso Inpgi, ai molti beneficiari di quella legge. Con un esborso di oltre 400 miliardi di lire dell’epoca, pari a 200 milioni di euro di oggi o fors’anche il doppio se si tiene presente la svalutazione. Perché mai a carico dell’Inpgi anziché dello Stato trattandosi di un evidente ammortizzatore sociale? Fino a quando il sistema retributivo se la faceva da padrone era frequente che i giornali. ma NON solo i giornali, promuovessero di grado chi stava per andare in pensione, onde permettergli di avere una pensione più alta di quella dovuta se fosse rimasto con la qualifica precedente. Ma a farlo erano i giornali di partito e simili, perché i giornali d’altro tipo non avevano nessun interesse a regalare promozioni e soldi a chicchessia neppure a fine carriera.

Infine, la legge obbliga l’Inpgi a pagare ai giornalisti eletti in Parlamento – e non sono certo pochi – due anni di contributi per ogni anno vissuto da deputato o senatore. Da notare che la norma vale anche per qualunque altro lavoratore, solo che in tal caso a pagare il doppio contributo è il datore di lavoro, mentre per i giornalisti invece è il nostro istituto di previdenza, cioè noi stessi. Anziché fare ricorso a misure di fatto solo moraliste, utili a ricevere facili applausi ma inefficaci sul piano pratico, il ministro Fornero e il premier Mario Monti potrebbero documentarsi su queste particolarità, che alcuni chiamano storture, e semmai intervenire su di esse. Strano, e immorale, che anziché le rendite e i grandi patrimoni si vogliano colpire i pensionati “d’oro”, che nella gran parte dei casi non sono affatto d’oro, la cui pensione è un diritto acquisito, costituzionalmente riconosciuto, e proviene comunque non da giochi di Borsa, acrobazie finanziarie o rendite di un qualche tipo, bensì dai soldi guadagnati con un regolare lavoro e versati di tasca propria dai diretti interessati nell’arco dell’intera loro vita lavorativa. E’ facile far leva sull’invidia di chi ha meno per colpire chi ha di più e magari molto di più. E’ facile in particolare colpire chi riceve 200 mila euro l’anno o anche di più. E’ facile, ma non risolve nulla colpire chi queste cifre le riceve come retribuzione differita, cioè su soldi suoi da lavoro sborsati in precedenza, anziché colpire chi i molti quattrini li riceve dalle cedole azionarie, da attività immobiliari, da intermediazioni finanziarie o da speculazioni di vario tipo.

Questo tipo di guadagno infatti NON è un diritto acquisito, è quindi tassarlo in modo più incisivo non viola nessun patto sociale e nessun patto Stato/cittadino. Evitare di varare la famosa patrimoniale surrogandola con una sua caricatura applicata ai pensionati “d’oro” non è serio, è solo demagogico. Il primo a farlo notare in tempi recenti è stato il multimiliardario statunitense Warren Buffet, che la scorsa estate ha pubblicamente fatto notare al presidente Obama che “paga percentualmente molte più tasse la mia segretaria di quante ne pago io per i guadagni da attività finanziarie”. Non parliamo poi dei guadagni da evasione fiscale… E’ solo ipocrisia dire che si colpiscono i “privilegiati”, che non sono una marea e comunque di privilegi in realtà non ne hanno perché ricevono solo il dovuto, per favorire i giovani. Senza le pensioni dei loro genitori “privilegiati” molti giovani – soprattutto tra gli studenti universitari e i neo laureati – si troveranno in difficoltà, visto che sono sempre più quelli costretti a vivere a spese dei genitori a causa della scarsità di lavoro. Un’altra spinta all’emigrazione? Una quindicina di anni fa qualcuno – mi pare il collega Francesco Abruzzo, all’epoca presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia – calcolò che nella sua intera vita lavorativa un giornalista italiano, che allora viveva un’epoca di contratti a tempo indeterminato e ben retribuiti, versava in media all’Inpgi all’incirca 800 milioni di lire, pari a 400 mila euro di oggi senza contare la svalutazione. Soldi che se messi in banca o investiti in Bot, Cct, ecc., permetterebbero comunque un più che discreto gruzzolo mensile una volta andati in pensione. L’Inpgi inoltre i soldi che riceve dagli stipendi dei giornalisti li investe, li fa cioè “lavorare” e produrre, anche se non molto.

Anche se io e la stragrande parte dei colleghi pensioni quel tipo non ce le possiamo sognare neppure col binocolo, non c’è quindi nessun motivo serio per dare dell’untore a chi riceve pensioni elevate, ma che comunque gli spettano in base a quanto effettivamente versato. Semmai ci si dovrebbe incazzare perché oggi, e da tempo ormai, la media dell’accantonamento all’Inpgi nell’intera vita lavorativa, oltre a non viaggiare certo su quell’ordine di cifre, si è molto abbassata: il contratto a tempo indeterminato, con scatti automatici di anzianità e aumenti da rinnovo del contratto collettivo, è da tempo sempre più una chimera e abbondano invece i freelance, i collaboratori esterni pagati (poco) a singolo pezzo, i non contrattualizzati, i Co.co.co, ecc.

Visto che di fatto si fa appello a un sorta di patriottismo per “salvare l’Italia”, volendo fare dello spirito si potrebbe far notare che ci sono i militari di carriera: dell’esercito, della marina, dell’aviazione, della guardia di finanza e dei carabinieri. All’occorrenza, tutti pronti per definizione e professione a dar la vita per la patria. Senza nessun bisogno di dare la vita, basterebbe solo “dare alla Patria” il blocco di uno scatto di anzianità o un po’ di prelievo extra dallo stipendio. Se i giornalisti con pensioni “da nababbo” si contano sulle dita di poche mani, in compenso in Italia c’è da sempre un numero di generali e ammiragli, nonché di ufficiali superiori, con annessi stipendi e pensioni, semplicemente enorme e ingiustificato, tant’è che non ha pari in nessun Paese europeo. E’ come se i giornali fossero allagati da una pioggia di direttori, vice direttori, condirettori e redattori capo: ovvio che i bilanci farebbero acqua. Visto anche che come ministro della Difesa abbiamo un militare, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, non si potrebbe cominciare a dare il buon esempio? Sempre meglio e meno ingiusto che mandare invece all’assalto del debito pubblico gli anziani, i vecchi e le donne. Cioè gli italiani che la divisa l’hanno vista tutt’al più solo durante la naja.