Reddito di cittadinanza: a Beppe Grillo da Padova

studenti in assemblea
Da una assemblea di 40 anni fa l’idea del reddito minimo di cittadinanza

Con il reddito di cittadinanza, Beppe Grillo ha rilanciato, con una proposta intelligente ed egualitaria, senza distinzione di sesso o categoria sociale, l’idea, tutt’altro che nuova, che essere cittadino italiano significa per la società il dovere di non lasciare sul lastrico i suoi membri e per il singolo cittadino il diritto, in caso di disoccupazione o sottoccupazione, a un reddito minimo che gli consenta di continuare a far parte dignitosamente della società intera.

Come giustamente fa notare lo stesso Beppe Grillo, nei Paesi del Nord Europa c’è già qualcosa di simile. Vero. Però in questi Paesi la società, tramite lo Stato, non si limita a metterti in tasca dei quattrini, per farti continuare a essere un consumatore passivo, ma ti dà anche corsi di riqualificazione per metterti in grado di trovare in tempi brevi un altro lavoro. Decente e non da accattoni.

Ed è proprio questo che manca in Italia: l’altra metà della medaglia chiamata reddito minimo di cittadinanza. E senza l’altra metà l’erogazione di un tale reddito minimo resterebbe solo assistenzialismo, più simile all’elemosina o all’ argent de poche che alla dignità sociale, lavorativa e professionale.

Io e Potere Operaio il salario politico mica lo volevamo per tenere la gente a girarsi i pollici. E le femministe il salario al lavoro domestico non lo predicavano certo per single o figlie che se ne restano a casa dei genitori.

Beppe Grillo è portatore di una proposta che può essere una grande occasione di equità, modernità e sviluppo. Ma solo se contemporaneamente cambia la concezione dell’assistenza pubblica. Lo Stato, la pubblica amministrazione, la società, devono cioè essere in grado di far funzionare i vari uffici di collocamento e del lavoro, oggi di inefficacia assoluta. E devono anche essere in grado di offrire formazione. Ma offrire formazione significa anche dover offrire posti di lavoro: altrimenti che formazione è? A che serve? A stimolare l’emigrazione?

Il dramma è che questa occasione – come le altre cose buone proposte da Beppe Grillo – rischia di girare a vuoto in un mondo politico che, sia pure ringiovanito e cambiato con la trasfusione di massa di sangue grillino, continua a guardarsi l’ombelico. Compreso quello di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.

Come ho notato prima, l’idea lanciata da Beppe Grillo non è una novità. Fu una idea che lanciai io stesso, quando, quarant’anni fa,  presiedevo la assemblea generale degli studenti della Università di Padova.  Tante cose sono accadute in questi anni e avevo accantonato il ricordo.

Proprio grazie a Beppe Grillo me lo hanno ricordato, nei giorni scorsi, le numerose telefonate di amici e amiche di quando ero studente – eterno fuori corso – di fisica a Padova. “Ma come, non ricordi? E’ la tua vecchia proposta del salario politico, primi anni ’70, ripresa poi da Potere Operaio e dalle femministe!”.

In realtà, la mia proposta del salario politico, poi adottata da Potere Operaio voleva che gli studenti e gli operai, un binomio allora motore di cambiamenti, avessero un salario che non scendesse mai sotto un certo limite e che fosse erogato anche ai disoccupati. Poi qualcuno partì per la tangente degli “espropri proletari”, facendone una scorciatoia e un surrogato fin troppo riduttivo, oltre che illegale, del salario politico.

Le femministe, invece,  la proposta del salario se la elaborarono in modo più intelligente, facendolo diventare il “salario al lavoro domestico”. Ricordo bene la posizione delle femministe perché al movimento apparteneva la  mia prima moglie, anzi ce la spinsi proprio io; poi le i ne divenne una leader nella pratica e nella teoria, colando a picco il matrimonio. Il succo del discorso femminista era il seguente: la casalinga non è una disoccupata, ma una donna che occupandosi del marito lavoratore, cioè della forza lavoro in atto, e dei figli, cioè della forza lavoro futura, di fatto svolge un lavoro prezioso, fondamentale per l’intera società. Che tipo di lavoro? Il lavoro di creazione, ricreazione e manutenzione della forza lavoro dell’intera società. Lavoro che quindi si voleva fosse riconosciuto come tale e come tale retribuito: con il salario al lavoro domestico, appunto. La teorica più decisa di questo tipo di femminismo fu senza dubbio l’assistente universitaria Maria Rosa Dalla Costa.

Negli anni successivi c’è stato anche un tentativo della Chiesa di sollevare il problema di una qualche forma di riconoscimento del lavoro delle casalinghe, ma non ha avuto seguito. Anche a causa dello smorzarsi del femminismo diventato in parte man mano, specie a Roma, una sorta di versione femminile del maschilismo. Qualche anno fa qualcuno fece la proposta di istituire nei supermercati una sorta di libretto dei contributi previdenziali per la pensione alle casalinghe: ogni tot di spesa un bollino contributo previdenziale. Ma non se n’è fatto niente neppure di questo. I bollini ci sono, ma solo come buono sconto o punteggio per poter acquistare a prezzo ridotto o avere gratis attrezzi da cucina o altre mercanzie, dagli orologi agli iPad.

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