La ripresa ha il mal d’America

di Paolo Forcellini
Pubblicato il 27 Giugno 2011 - 20:26 OLTRE 6 MESI FA

Tra le molte anomalie della ripresina a stelle e strisce vanno senz’altro ricordati l’aumento della propensione al risparmio degli americani e il perdurante ristagno dei consumi. Quanto al primo, in un paese che non ha mai avuto una grande vocazione al non spendere, si è passati da una situazione in cui il risparmio era sotto zero (perché crescevano di più i debiti) a un tasso netto di risparmio attuale attorno al cinque per cento. Specularmente, i consumi ristagnano. In altri periodi questa maggiore accortezza dei cittadini Usa avrebbe potuto essere giudicata positivamente: oggi più che di accortezza si dovrebbe parlare di timore che le nubi della crisi finanziaria coprano ancora il sol dell’avvenire. E tutto ciò non favorisce certo il decollo dell’occupazione e della ripresa.

Per giungere a questi bei risultati il Tesoro di Timothy Geithner e la Fed di Ben Bernanke hanno messo in campo una potenza di fuoco enorme: 800 miliardi di dollari di stimoli all’economia; un massiccio acquisto di titoli sul mercato per sostenerne le quotazioni e aumentare la liquidità; un debito pubblico che dal 62 per cento del Pil nel 2005 raggiungerà il cento per cento quest’anno per salire ulteriormente nei prossimi; un deficit che dal 2 per cento del 2006 è giunto al 12,7 nel 2009, al 10,6 nel 2010 e si stima prossimo all’11 per cento quest’anno; e via spendendo. L’effetto, come si è visto, è stato finora piuttosto deludente, anche se chissà cosa sarebbe successo senza quella terapia d’urto che peraltro rischia di far abbassare il rating dei titoli del Tesoro Usa.

In principio vi è stata la crisi finanziaria, la bolla immobiliare, la folle corsa ai derivati. Fattori decisivi nel precipitare la prima economia del mondo nella crisi del 2007-2008 e, dietro ad essa, anche le altre principali economie. Ora l’attuale difficoltà americana ad uscire pienamente dal ristagno riflette numerosi fattori esogeni al sistema economico Usa, dalla crisi dei debiti sovrani nell’eurozona alla corsa dei prezzi di molte materie prime, il petrolio prima di tutte, al rallentamento dell’economia giapponese, in seguito allo tsunami, e di alcune importanti economie dei paesi emergenti, come il Brasile, che procedono sì a tassi che a noi farebbero gola ma che sono comunque alquanto inferiori a quelli attesi fino a poco tempo fa.

Per quanto riguarda la questione della disoccupazione Usa, pur risentendo ovviamente del complessivo quadro mondiale, pare certo che presenti delle specificità nazionali, americane. Gli Stati Uniti sono sempre stati considerati un paese con grande flessibilità dell’occupazione: questa veniva ridotta sensibilmente nelle fasi di stagnazione e recessione ma l’economia dimostrava una grandissima capacità di creare posti di lavoro non appena il ciclo rialzava la testa. A quanto pare non è più così, come si è già visto. Quali le cause? Secondo il già citato Sinai sono sostanzialmente due, oltre alle prospettive economiche poco incoraggianti: 1) un costo del lavoro troppo alto; 2) l’introduzione di tecnologie che riducono la manodopera e costano assai meno che in passato. Insomma, per usare vecchie distinzioni, si tratta di una crisi dell’occupazione strutturale e non meramente congiunturale che potrebbe venire superata solo tagliando drasticamente salari e contributi sociali. Non pare pane per i denti di Obama. Men che meno per quelli dei governanti dei paesi europei, molti dei quali si trovano di fronte problemi simili.