Da Feltrinelli ad Abbà, l’abbaglio della rivoluzione sul traliccio

di Riccardo Galli
Pubblicato il 28 Febbraio 2012 - 16:33 OLTRE 6 MESI FA

Luca Abbà, il leader NoTav caduto dal traliccio (Lapresse)

VAL DI SUSA – Era il mattino del 16 marzo 1972, i giornali e la radio annunciavano che c’era un cadavere ai piedi di un traliccio dell’alta tensione. Passeranno ore prima di avere la certezza che il cadavere era quello di Giangiacomo Feltrinelli, del “compagno” Feltrinelli. Ma non basteranno né ore e né giorni perché la sinistra, i democratici, l’opinione pubblica progressista di allora riesca a convincersi, a credere che l’editore, l’intellettuale, il militante, il rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli non sia stato da mani più o meno oscure e assassine cadavere ai piedi di quel traliccio.

Era difficile, quasi impossibile credere che su quel traliccio fosse salito per farlo saltare con l’esplosivo e che quell’esplosivo mal maneggiato l’avesse ucciso, la colpa non poteva che essere dei servizi segreti o di una qualche articolazione degli Stati repressivi e delle multinazionali. E’ la sera del 27 febbraio 2012, poche ore dopo che Luca Abbà, militante No-Tav è caduto da un traliccio dell’alta tensione. Non voleva farlo saltare, era lassù per opporsi all’apertura del cantiere. Ora è in coma e nessuno dei militanti No-Tav riesce a credere al drammatico incidente, vanno in corteo a Milano con lo striscione: “Questa non si perdona”. Sono certi che Abbà sia vittima, una vittima voluta della “militarizzazione” della Val di Susa.

Dal marzo ’72, anno in cui morì Giangiacomo Feltrinelli, al febbraio 2012, mese in cui uno dei leader dei No Tav, Luca Abbà, è precipitato da un traliccio, sono passati quarant’anni esatti. Molto è cambiato e tutto e diverso. Diverse sono le persone, le storie, gli ideali e i modi. Ma ci sono anche dei punti di contatto: primo fra tutti i tralicci dell’alta tensione, teatro della morte del primo e dell’incidente del secondo, e poi la reazione dei loro compagni, oggi la stessa di allora, ferma e convinta nel dar la colpa dell’accaduto allo stato nemico e imperialista. E altra è la costante dei due avvenimenti lontani nel tempo: il collocare la Rivoluzione-feticcio lassù, sull’alto di un traliccio.

Quarant’anni fa si lottava, e in alcuni casi si moriva, per la rivoluzione, pronunciata e pensata con la maiuscola. Oggi lo si fa per fermare un treno, un treno diventato simbolo di ogni infamia e ingiustizia. Aspirazione più prosaica e meno nobile ma animata, la seconda come la prima, da un ideale. Un ideale che si fa mistica e che porta a rischiare la vita in suo nome. Sia Feltrinelli che Abbà hanno condiviso la mistica certezza che valesse mettere la loro vita in gioco per qualcosa di “alto”. Questa certezza genera la convinzione che una seconda certezza non è discutibile: il colpevole c’è e veste la divisa, la divisa dello Stato. Andate a riascoltare le grida dei manifestanti No Tav che soccorrono Abbà: sono convinti e sicuri che la polizia stia ritardando l’arrivo dell’ambulanza perché Abbà lo vogliono morto. Ne sono certi, moralmente certi contro ogni evidenza. Gridano ai poliziotti: “Contenti stasera di andare a casa avendone ammazzato uno?”. Mitiche e mistiche certezze che generano a loro volta la fede in una legalità “altra”, l’unica vera e degna: la legalità che si oppone a quella dello Stato, la legalità del proprio “collettivo” migliore di quella della collettività. Migliore e nemica. Per la “vera” legalità è obbligo e onore combattere, la legalità “altra” è impostura e violenza. Sono gli ingredienti di base della guerra civile, sono gli anticorpi della convivenza civile.

Giangiacomo Feltrinelli morì il 14 marzo 1972. Il suo corpo fu rinvenuto, dilaniato da un’esplosione, ai piedi di un traliccio dell’alta tensione a Segrate, nelle vicinanze di Milano. Morto nel tentativo di mettere una bomba sul traliccio, ucciso dall’esplosivo che doveva dar linfa alla rivoluzione dirà l’inchiesta, anzi le inchieste, quella della magistratura e quella interna delle Brigate Rosse. Ma da subito ci fu chi sostenne una tesi diversa: quella dell’omicidio, opera della CIA in accordo con i servizi italiani. Tesi sostenuta, a caldo, anche da un manifesto firmato fra gli altri da Camilla Cederna ed Eugenio Scalfari, che iniziava con le parole “Giangiacomo Feltrinelli è stato assassinato”.

Nel 1979, al processo contro gli ex membri dei Gap (confluiti nelle Brigate Rosse), gli imputati (fra cui Renato Curcio ed Augusto Viel) emisero un comunicato che dichiarava: “Osvaldo non è una vittima ma un rivoluzionario caduto combattendo” e confermava la tesi dell’incidente durante l’esecuzione dell’attentato. Osvaldo era il nome di battaglia di Feltrinelli.

Feltrinelli era un personaggio quasi romantico, nato da una delle più ricche famiglie italiane, era Marchese di Gargnano. Il padre, Carlo Feltrinelli, fu presidente di numerose società tra cui il Credito Italiano e l’Edison, e proprietario di aziende come la Bastogi, la società di costruzioni Ferrobeton Spa e la Feltrinelli Legnami, società leader nel settore del commercio di legname con l’Unione Sovietica. Alla morte del padre, avvenuta nel 1935, la madre, Gianna Elisa Gianzana Feltrinelli, si sposò nel 1940 in seconde nozze con il famoso inviato del Corriere della Sera Luigi Barzini. Divenuto adulto, Giangiacomo fondò la casa editrice che prese il suo nome e coltivò i suoi ideali politici. Sognava di creare in Sardegna la Cuba europea, era amico di Fidel Castro e ammiratore di Ernesto “Che” Guevara. Fondò i Gap (Gruppi di Azione Partigiana), una delle prime organizzazioni armate di sinistra della stagione degli Anni di piombo, finanziò il Pci ma anche diversi gruppi di estrema sinistra.

Una storia diversissima da quella di Luca Abbà, uno degli esponenti più noti del movimento No Tav, proprietario di uno dei terreni che devono essere espropriati, rimasto gravemente ferito durante l’operazione di recinzione dell’area per il cantiere dell’alta velocità Torino-Lione. Abbà, si trovava alla baita Clarea per “sorvegliare” il cantiere in vista degli espropri. Quando ha visto l’inizio delle operazioni di recinzione dell’area, ha scalato un traliccio della luce, finendo per toccare, volontariamente o meno, i cavi della corrente. A differenza di Feltrinelli si spera che Abbà ce la faccia. Le sue condizioni sono gravi ma stabili. Ma come per il compagno Osvaldo anche per Abbà si è subito parlato di responsabilità della polizia, dello Stato e del capitalismo. In una ripetizione di quella convinzione, viva anche negli anni 70, per cui ci deve sempre essere un responsabile “cattivo”.

Due storie, due vite e due battaglie distanti anni tra loro in cui si ritrovano però degli elementi di continuità, in quella che potrebbe essere definita la parabola della rivoluzione sul traliccio. Parabola che però purtroppo nulla sembra aver insegnato. Risorto come zombie, come morto che cammina l’orrido vizio italiano secondo cui “i morti degli altri” nulla valgono e nulla meritano. Infatti il quotidiano Libero subito apre sondaggio con l’oscena domanda: “Se l’è meritata?”. Quasi il 50 per cento risponde di sì. Poi la versione “dolce” del ludibrio e del disprezzo: “Se l’è cercata” invece del se l’è meritata. Il Giornale titola in prima pagina: “Solo un cretinetti”, questo lo stigma su Abbà che lotta per la vita. Non manca solo la pietà, latita anche qui la nozione elementare della convivenza civile. E risorge prepotente un altro morto che cammina: la voglia di vendetta travestita da reazione politica. Negli animi, nelle menti, nelle coscienze nei rancori, negli odi e c’è da temere presto nei fatti qualcuno cercherà di proseguire la lotta del “martire” e di vendicarlo.

La parabola che nulla ha insegnato: non la vacuità, ingenua e al tempo stesso violenta, di appendere la rivoluzione ad un traliccio. Non lo sbocco assolutamente cieco di santificare la propria legalità a danno di quella malvagia e diabolica dello Stato. Nessuno ha messo Abbà su quel traliccio se non Abbà stesso e la sua certezza di star lottando contro il male assoluto infantilmente personificato in un treno. E, se proprio qualcuno lo ha aiutato a salire lassù, sono stati i molti, i troppi che fanno finta di non sapere che la Torino-Lione è stata votata da due Parlamenti, da due governi, quello italiano e quello francese. Possono aver sbagliato, sono decisioni che possono essere discusse e contestate. Ma sono decisioni democratiche e legali. Volerle scardinare non è la rivoluzione ma la rivolta, quaranta anni fa questa differenza Feltrinelli la conosceva, oggi il confine è stato cancellato e smarrito. La parabola è diventata una narrazione confusa, ipocrita, smemorata e incosciente. Capace di cullare e risvegliare l’ultimo e peggiore zombie: una sorta di guerra civile. A bassa, minima intensità ma pur sempre guerra civile.