Zucconi: “Il mio 11 settembre, cavallo stanco di un’America sconfitta”

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 9 Settembre 2011 - 15:59| Aggiornato il 10 Settembre 2011 OLTRE 6 MESI FA

Ha scritto su Repubblica un articolo sulle commemorazioni dell’11 settembre in cui ricorre spesso una parola: la fatica
«Sì, fatica. Sarebbe fatigue, è una parola difficile da tradurre in italiano. Significa spossatezza, la stanchezza dei soldati quando tornano dalla guerra. La chiamavano battle fatigue. Adesso danno nomi più complicati: “La sindrome da…”, perché devono dare nomi più complicati. È un sentimento molto presente negli americani anche se verrà “coperto” da tutto il cerimoniale. C’è anche in Italia in occasione di tutte le ricorrenze, si fa sempre più fatica a “frustarle”, come quando si frusta un cavallo stanco. Certo c’è chi ci crede ancora appassionatamente, al 25 aprile, al 2 giugno, al 4 novembre, ai 150 anni dell’Unità. Però col passare del tempo diventa sempre più difficile ritrovare la stessa carica nei sentimenti, la stessa sincerità. Ecco: c’è il rischio che fra la fatica si faccia largo molta insincerità in questa commemorazione».

Perché l’11 settembre è già un “cavallo stanco”, dopo solo 10 anni?
«Perché oggettivamente oggi gli Usa sono angosciati da altre cose. Se tu stai per avere la casa pignorata e non hai avuto un fratello, un cugino, una moglie o un marito, un figlio morti lì… l’11 settembre farai il tuo minuto di silenzio, la tua preghiera. Ma ti preoccupa di più il 12 settembre, quando lo sceriffo busserà alla tua porta per portarti via la casa e buttarti in mezzo alla strada. Questo è anche un po’ la forza dell’America: la propria concretezza, il proprio materialismo (per usare una parola grossa). Poi nelle guerre in Iraq e Afghanistan non ci sono stati i “figli del popolo” (nel senso dei figli di tutti) a combattere, ma ci sono sempre quei militari che ci vanno perché ci vogliono andare. Tutto questo è “altro da sé”. Allora sì: commuoviamoci ma poi fammi vedere la partita che inizia il campionato (di baseball). È una crescente indifferenza accompagnata a una crescente preoccupazione per il proprio lavoro, la propria casa, le pensioni che si stanno squagliando in borsa. Che rapporto ha la condizione presente dell’americano medio con l’11 settembre? Non ce l’ha. Quindi è la commemorazione è insincera e rischia di essere sempre di più artificiale».

Come può restare “sinceri” senza buttare tutto nel dimenticatoio?
«L’unica maniera di combattere questa guerra era quella di ripristinare la leva obbligatoria. Allora avremmo assistito a due reazioni: o i cortei per le strade, le cartoline-precetto bruciate in piazza, come col Vietnam nel 1968. Oppure una grande partecipazione popolare come dopo l’attacco a Pearl Harbour nel dicembre 1941 (che è l’unico altro caso di aggressione diretta di stranieri sul suolo americano). In cui la gente, i giovani, le donne avrebbero fatto la fila davanti ai centri di reclutamento per indossare l’uniforme e contribuire. Non avendo reintrodotto la leva, ci si trova a fare i conti con l’estraneità del fenomeno, che rende inevitabile l’artificiosità dei legami sentimentali con lo stesso. E poi, sarà davvero finita la guerra? A che cos’è quel monumento lì? A un orrendo attentato. All’inizio di una guerra che non è finita».

Tanti, intrappolati dal fumo, si lanciarono dai piani alti (Ap-Lapresse)

Quindi intorno a questa data si fa troppo spettacolo?
«Se non ci fossero stati i filmati, ce ne saremmo già dimenticati. Chi si ricorda più di Oklahoma City? A Madrid cosa fanno per la stazione di Atocha? E a Londra, per gli attentati alla metropolitana del 2005? Forse sull’11 settembre hanno un po’ esagerato e stanno esagerando ancora. Anche i media, con tutte queste rievocazioni, con i documentari: ci siamo assuefatti. Nemmeno quelli che volano dalle finestre fanno l’effetto terrificante che fecero la prima volta. Tutto diventa il film già visto per la milionesima volta».

Però l’iperesposizione mediatica qualcosa di buono ce l’ha…
«Sì, che è anche un antidoto al terrorismo. Anzi è la vera grande sconfitta del terrorismo: dopo che hai rapito Moro, chi rapisci? Dopo aver fatto crollare le Torri Gemelle e mezzo Pentagono, cosa fai? È quello che chiamano nel gergo dello spettacolo “il numero da circo”: dopo che hai lanciato tre palle in aria, e dopo che nei hai lanciate quattro, dopo che ne hai lanciate cinque, quante palle devi lanciare per attirare l’attenzione del pubblico? Quale altro choc potrà essere più forte? Potrebbero rispondere: la bomba atomica, le radiazioni, la guerra batteriologica o chimica. Certo, però, più diventa complesso il piano, più diventa facile sventarlo. Si dice che fino ad ora sono stati sventati 30 attentati: sarà anche un calcolo del pizzicagnolo, alla “aggiungi un’altra fetta”, ma sicuramente adesso è tutto molto più difficile. E il fattore limitante del terrorismo, ripeto, è il terrorismo stesso. A un certo punto le Brigate Rosse si saranno dette: “Spariamo ai giornalisti, ammazziamo i magistrati, rapiamo un presidente, ma che c… dobbiamo fare oltre a quello che abbiamo fatto?” Il terrorista vuole creare terrore, ma se al terrore ci si abitua, la ferita si cicatrizza e di conseguenza si sente forse anche meno il dolore. E questa forse è la morale di questo 11 settembre. 2011».