Aleppo e la Siria. Il reportage del Fatto Quotidiano: “Regno di sangue tra fame e sharia”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 15 Novembre 2013 - 10:45 OLTRE 6 MESI FA
Aleppo, un anno dopo. Il reportage del Fatto Quotidiano: "Regno di sangue tra fame e sharia"

Aleppo, un anno dopo. Il reportage del Fatto Quotidiano: “Regno di sangue tra fame e sharia”

ROMA – . Missili, cecchini, sequestri, grandinate di artiglieria e il tifo, questo il ritratto tracciato da Aleppo dall’inviata del Fatto Quotidiano, Francesca Borri, una città martire, una città strangolata dalla fame e dalle Sharia:

Ma Aleppo in fondo è sempre la stessa: lasciate ogni regola, voi che entrate. Ragazze completamente coperte, completamente in nero, contemplano vetrine con tacchi fluorescenti e vertiginosi. Cammini per Aleppo e ogni tanto un uomo, davanti a te, per un colpo asciutto, cade: abbattuto da un cecchino. Tra le macerie è cresciuta l’erba, la guerra è diventata carne di questa città. Cammini e ovunque queste case tranciate dai missili, spalancate per metà, un divano, la lampada una libreria, fossili di vite normali, un triciclo sospeso a mezz’aria, le tende nel vento, dentro la bottega di un barbiere, intatte, le boccette di vetro ancora allineate sulle mensole, sviti, e ancora senti un profumo al gelsomino. Perché tutto sembra normale ad Aleppo, non manca niente: ma niente è al suo posto. Nelle ambulanze trovi combattenti, al fronte bambini con il kalashnikov del padre ucciso, tutto come un cortocircuito, nel fiume si pescano pesci e cadaveri, un foro alla nuca, le mani legate.

I cecchini si dividono i turni, la mattina arrivano alla loro postazione, puntuali, dopo il caffè, parcheggiano davanti al portone come andassero in ufficio. E alle contraddizioni si saldano le distorsioni. Se è tutto così complesso da decifrare e da capire è anche perché a raccontarci la Siria sono rimasti ormai solo i siriani. Lavorano per le maggiori agenzie, le maggiori testate, e contribuiscono ad articoli scritti da New York, Parigi. Londra. Sono i famosi citizen journalist, tanto glorificati anche da chi probabilmente non si affiderebbe mai a un citizen dentist. E il risultato sono casi come quello di Elizabeth O’Bagy, l’analista di un istituto di ricerca americano citata da John Kerry nei giorni dell’attacco chimico. Sul Wall Street Journal, era apparso un suo pezzo sui ribelli, da cui si ricavava l’impressione che sono brava gente, gente che protegge le minoranze: e che i fondamentalisti islamici, qui, non sono che una manciata perché il problema per gli Usa è questo: temono che Assad venga rimpiazzato da al Qaeda. Poco dopo, mentre Human Rights Watch denunciava i ribelli per crimini contro l’umanità contro le minoranze, è venuto fuori non solo che Elizabeth O’Bagy non aveva il PhD dichiarato, ma anche che era a libro paga di una lobby siriana il cui obiettivo è convincere Obama all’intervento. Nell’era di twitter e youtube, è sui resoconti delle Elizabeth O’Bagy, che poi fondiamo – sempre più – la nostra politica estera. Le nostre guerre.

Quando la battaglia di Aleppo è iniziata, nell’agosto 2012, i giornalisti erano decine: non è rimasto nessuno. Ma in realtà non è che la guerra qui sia divenuta più pericolosa. In fondo, non è che le cose fossero migliori un autunno fa, quando Aleppo, feroce, non era che un teatro di esplosioni. Solo che eravamo insieme ai ribelli. E loro, per quanto disastrati con le loro scatolette di tonno convertite in granate, le infradito e la maglietta del Che, erano quelli che combattevano per la libertà: e noi testimoniavano al mondo i crimini di Assad. Oggi che Aleppo è fame e sharia, donne in stile afgano e bambini in stile africano, oggi che un nuovo regime ha sostituito il vecchio, abbiamo scoperto cosa significa la guerra quando non si è embedded. E sia i ribelli sia il regime ci braccano come nemici. Non è divenuta più pericolosa, questa guerra: solo più vera. E ora che è anche per noi quella che è da sempre per i civili, la guerra in cui nessuno è innocente, nessuno è immune, siamo scappati.