Via Poma, Busco condannato. Un colpevole vent’anni dopo. I dubbi su un processo indiziario

Pubblicato il 27 Gennaio 2011 - 12:51 OLTRE 6 MESI FA

Simonetta Cesaroni

Vent’anni dopo il delitto di via Poma ha un colpevole. Per i giudici della Corte d’Assise  di Roma è stato Raniero Busco ad ammazzare l’ex fidanzata Simonetta Cesaroni. Una sentenza, quella di primo grado, che non porterà Busco in carcere subito ( bisognerà attendere l’ultimo grado di giudizio). Una sentenza che si porta appresso una lunga scia di dubbi. Lunga almeno vent’anni, appunto.

Mentre la  moglie piangeva, il fratello dava in escandescenze, Busco si è sentito male subito dopo il verdetto. Per lui, come per chi negli anni gli è stato vicino, si tratta di “un’ingiustizia”, perché Busco si è sempre proclamato innocente e adesso invece è stato inchiodato dall’accusa per quel morso sul seno di Simonetta, compatibile con la sua arcata dentaria.

Per scrivere la parola fine a questo giallo infinito, i giudici hanno dovuto impugnare i risultati degli esami del Ris di Parma. Il kit speciale arrivato dagli dagli Stati Uniti per identificare tracce di violenza sessuali, non aveva riscontrato prove di stupro, ma aveva fatto emergere un morso sul seno. Sul reggiseno gli esperti hanno identificato il Dna di Busco.

Ecco, un morso, una traccia che Busco ha sempre contestato, sostenendo che risale alla sera prima dell’omicidio, quando incontrò per l’ultima volta Simonetta. I due, all’epoca dei fatti, erano fidanzati. Altro tassello che i giudici hanno inquadrato in senso colpevolista, ma che lascia più di una perplessità, è l’alibi di Busco. Dov’era? Lui ha detto che era in officina a riparare il motorino di un amico mentre la sua ragazza veniva uccisa, ma il diretto interessato ha smentito dicendo che era al funerale di una parente. Poi ci sono state anche le testimonianze di due vicine di casa che hanno detto di aver visto Busco in officina nelle ore del delitto.

Eppure, quella sera del 7 agosto di 2o anni fa, nessuno chiese al giovane Raniero se avesse un alibi, solo 16 anni dopo è stato lui a rievocarlo. A due anni dal pomeriggio in cui la Cesaroni veniva colpita con 29 coltellate finisce nel mirino Federico Valle, il nipote dell’architetto Cesare Valle, l’unico inquilino della scala dove si trova l’appartamento del delitto. Finisce sotto inchiesta per omicidio, ma nel 1995 esce di scena, nonostante Roland Voeller, che aveva raccontato di aver saputo dalla madre di Valle che la sera del 7 agosto il giovane era tornato sporco di sangue.

Ci sono tanti nodi oscuri, resta qualche mistero. Perché per esempio il portiere dello stabile di via Poma, Pietrino Vanacore, si è tolto la vita proprio quando “il pm Ularia Cavo aveva imboccato una strada che separava definitivamente la morte di Simonetta dai tanti sospetti che lo avevano coinvolto”?, si chiede Rita Di Giovacchino sul Fatto quotidiano.

Vanacore era sospettato di avere ripulito dalle tracce di sangue il pavimento dell’ufficio e dell’ascensore per coprire l’assassino. Poi il 9 marzo 2010, a 20 anni di distanza, è stato trovato morto affogato in Puglia in circa mezzo metro d’acqua.

Scrive Paolo Graldi sul Messaggero: “Resta fermo un punto: l’aspetto indiziario del delitto è parso prevalere sulle certezze fornite da prove irrefutabili e dunque ad accogliere per fissare una verità, almeno quella giudiziaria, illuminata e illuminante, capace di spezzare zone d’ombra”.

Poi continua sulla sentenza, decisa dalla Corte d’Assise e “tanto per adesso deve bastare in attesa di una verifica che il nostro ordinamento concede a tutti: l’appello e poi la Cassazione”.